IL PROCESSO
Lonate, Rispoli: «Aloisio aveva troppe donne»
Parla il boss:«Non l’ho ucciso io: era mio cugino, era nel mio cuore»

«Non ho ucciso Cataldo Aloisio, era mio cugino, stava nel mio cuore. Affido a voi giudici la mia vita con serenità perché so che in camera di consiglio deciderete il giusto»: l’ultima parola dell’udienza di ieri, martedì 9 novembre, l’ha pronunciata Vincenzo Rispoli, il boss della ‘ndrina di Lonate Pozzolo e Legnano, un boss riconosciuto da sentenze ormai definitive ma un po’ provato dalla detenzione all’Aquila, in regime di 41bis. Maglioncino nero, occhiali da intellettuale e una sorta di canovaccio per non perdere il filo del discorso e soprattutto gli argomenti più forti da contrapporre alle rivelazioni di Emanuele De Castro.
«La verità è che l’operazione Krimisa ha smascherato tutto l’odio che i coimputati provavano per lui, per la sua prepotenza e i suoi modi. Leggendo le intercettazioni e le intenzioni di Filippelli di ucciderlo De Castro ha avuto paura e si è pentito. Ha raccontato di avere con me un rapporto di grande amicizia, ma era almeno dal 2008 che mi ero allontanato da lui». E le congetture spaziano da possibili sgarri all’interno del clan ad affari sfumati. Invece no. Rispoli svela un insospettabile lato del pentito, quello del playboy: «Aveva troppe amanti e le portava addirittura giù al paese e per noi meridionali questo è un comportamento inaccettabile. Quando era in carcere faceva i colloqui sia con la moglie che con l’amante, aveva portato l’altra donna in vacanza e si faceva vedere in giro. Non erano cose tollerabili. In carcere poi litigava con tutti anche per questo atteggiamento e insomma, ha capito di essere ormai isolato da tutti. Girava armato come se temesse qualcosa».
La valenza e il ruolo dei collaboratori di giustizia sono stati al centro delle discussioni degli avvocati Salvatore Staiano - difensore di Cataldo Marincola - e Luigina Pingitore, legale di Rispoli. «In questo processo non si capisce chi abbia ammazzato, chi abbia sparato, chi fosse in macchina, insomma non si capisce niente perché i pentiti si contraddicono, perché Emanuele De Castro ha inventato, perché mancano i riscontri di tutto ciò che hanno dichiarato. Piuttosto è emerso che Marincola non è ‘ndranghetista e ancor meno ha un ruolo apicale nell’associazione» è la conclusione di Staiano, arricchita da parallelismi tra giurisprudenza e filosofia. «Ricordiamoci cosa ha sostenuto la Cassazione di recente: non si può più affermare che in quanto capo un imputato possa essere responsabili di qualsiasi cosa facciano altri», ha esordito Pingitore. «Non basta produrre sentenze passate in giudicato» per statuire inferenze così nette. «Ci sono diverse ricostruzioni plausibili in questa vicenda, Aloisio era inserito in un contesto di spaccio, di lui si parlava per la scomparsa di Isabella Costantino», la venticinquenne sparita a Cirò Marina nel 2000 in circostanze mai chiarite. «Incombeva su di lui questa storia, abbiamo sentito il padre di Isabella confermare che il pensiero fosse andato a Cataldo Aloisio, lo disse anche il maggiore dei carabinieri». Anche per l’avvocato Pingitore il pentito De Castro non ha credibilità: «Parla solo del passato, di quando arrivò da Palermo, dei Murano. sbaglia nel collocare alcune vicende, sbaglia le date. Come si fa a definire sia lui che Francesco Farao collaboratori?».
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