INTERVISTA
Massimiliano Gioni: l’arte delle migrazioni

Vive tra New York e Milano, ma gli capita di festeggiare il Natale a Busto Arsizio, la città dove è nato 44 anni fa e dove abitano suo fratello e sua sorella. Per Massimiliano Gioni è normale fare il pendolare tra le due sponde dell’Atlantico. Lo è anche per sua moglie Cecilia Alemani, curatrice del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia che apre il 13 maggio. E lo è - di conseguenza - per Giacomo, che non ha ancora due anni ma chiacchiera con il papà durante la nostra intervista telefonica, mentre gioca nei giardinetti vicino alla Biennale: stanno aspettando la mamma che allestisce un «Mondo magico» con le opere di Adelita Husni-Bey, Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi.
Gioni, figlio di un’insegnante e di un dirigente di una fabbrica di inchiostro, ha studiato in Canada e poi si è laureato in storia dell’arte al Dams di Bologna. La sua carriera è cominciata come redattore di una rivista del settore: erano i tempi in cui rispondeva alle interviste al posto dell’amico Maurizio Cattelan, grande provocatore (è quello del «Dito medio» davanti alla Borsa di Milano), che negli anni sarebbe diventato il più quotato artista italiano vivente.
Nel 1999 Gioni viene trasferito a New York, dove inizia la sua brillante vita da curatore. Dal 2003 è direttore della Fondazione Nicola Trussardi di Milano, dal 2007 è direttore associato del New Museum di New York e nel 2013, a 39 anni, è stato il più giovane direttore della Biennale di Venezia, da lui intitolata «Il palazzo enciclopedico». Ora il suo nuovo progetto è «La terra inquieta», mostra ideata e curata da Gioni e promossa dalla Triennale di Milano, che la ospita fino ad agosto, e da Fondazione Trussardi.
«La terra inquieta» parla di migrazioni contemporanee?
«Racconta la rappresentazione delle migrazioni. Oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno che ci sembra un’emergenza ogni estate ma che si ripete da decenni con la stessa drammaticità. Molti artisti di molti paesi del mondo raccontano questa trasformazione e lo fanno in un modo che spero arricchisca la nostra prospettiva in un modo più empatico, più sentimentale o più umano di quello che traspare dalla semplice cronaca. Poi c’è una sezione sul 900, con fotografie e documenti che illustrano per esempio, per usare una formula efficace, di quando gli emigranti eravamo noi italiani. Questo ci aiuta a capire che è un destino che i nostri antenati hanno già vissuto».
La sua precedente mostra si intitolava «La Grande Madre» e anche lì c’era il tema della terra: c’è un legame?
«In entrambe c’è l’idea di guardare non solo all’arte ma a vari contributi di cultura visiva. E l’idea che nelle mostre si vada non per contemplare presunti capolavori, ma per vedere una rappresentazione più complessa della realtà. E che le mostre siano una lente attraverso cui percepire il presente ma anche la nostra storia, e dunque capire il mondo che ci circonda».
Essere nato a Busto è stato un trampolino o un freno per la sua crescita professionale?
«Essere provinciale può essere un motore di curiosità, perché ci si sente estranei ai presunti centri e si impara a muoversi e viaggiare prima. Essere nato a Busto Arsizio, dove torno per le feste comandate, mi ha spinto a guardare più in là».
Cosa le piace di Busto?
«Busto ha queste vecchie bellissime ville di fine 800 inizio 900, alcune pubbliche come Villa Tosi, che raccontano di un mondo scomparso, di un passato industriale forse ormai glorioso, tristemente, e soprattutto di un’idea di bellezza e di industria combinate nel bene e nel male: per me rappresentano da una parte l’idea della ricchezza, dall’altra forse inconsciamente un desiderio di preservare la natura nel momento stesso in cui l’industria la distrugge».
Ha qualche altro ricordo?
«Mi ha sempre colpito che la Madonna nella chiesa di Santa Maria avesse alzato il braccio per fermare la peste (la Madonna dell’Aiuto, nel 1630, ndr): ora mi fa pensare a quanto la gente, sia pure con ingenuità, possa avere fiducia nelle immagini e nelle opere d’arte, a quanta efficacia possano avere».
In provincia è presente il problema dell’immigrazione, tema anche della sua mostra.
«La città di Busto che io ricordo da è una città anche tanto di immigrati ed emigrati e questo bisognerebbe ricordarlo più spesso quando si parla dei tanti miti di presunte origini della nostra Lombardia: siamo stati capaci di essere cosmopoliti e non solo profondamente lombardi».
Quali musei o luoghi d’arte ama in provincia?
«Il posto che mi è sempre molto piaciuto è Castiglione Olona con gli affreschi di Masolino e la sua bella architettura».
Nell’arte ci vuole ironia?
«Ci vuole per evitare di credere troppo a se stessi, però non voglio fomentare il dubbio che il mondo dell’arte non sia un mondo serio. Nel mio caso c’è più lavoro che ironia, l’ironia serve poi per fare arrivare certi messaggi con una leggerezza diversa. Ma non bisogna pensare che l’arte sia uno scherzo».
Com’è il suo rapporto con Beatrice Trussardi?
«Beatrice mi ha cercato quando eravamo molto più giovani, 14 anni fa: abbiamo fatto molte cose belle e originali che hanno arricchito spero la città di Milano. È una persona molto speciale per la sua generosità e per la sua apertura al nuovo e a ogni rischio. È una complice perfetta per quello che facciamo».
Visto che difficilmente avremo un Massimiliano Gioni che lavori in provincia, ci regala un piccolo suggerimento per far funzionare il sistema dell’arte anche senza i grandi budget e i grandi nomi?
«Non ho ricette. Posso dire che storicamente la Lombardia è sempre stato un luogo aperto alle novità e indirizzato verso l’Europa, con un’idea di velocità e modernità molto forte: credo che sia questa l’identità da tenere viva. Ci sono tanti modi ma bisogna intanto avvicinarsi all’arte e alla cultura contemporanea superando quella sorta di diffidenza che ci fa restare indietro (e che a Milano negli ultimi anni per fortuna è stata vinta), per arrivare a essere molto più a contatto con il presente. E anche con il futuro direi».
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