SABATO SERA
A Maccagno il chitarrista dei migliori
Massimo Luca, da Battisti a Guccini, da De André a Bennato: concerto-teatro all’Auditorium

«Indispensabile presenza Mr. Luca». Il telegramma era firmato Phil Ramone, compianto producer dello Studio al 112 di West 48th Street a New York, da dove sono passati - fra gli altri - Frank Sinatra, Burt Bacharach, Elton John e Luciano Pavarotti.
Mr. Luca, ovvero Massimo Luca, oggi giovanotto di 71 anni, indispensabile lo è stato non solo in quell’occasione, cioè per registrare in uno studio parigino - era il 1990 - il Giannutri di Fabio Concato. Ma, indispensabile lo è stato - in barba al detto generalista, usato spesso dagli irriconoscenti - e lo è ancora per tutti quegli artisti che, potendo riascoltarsi, trovano un bel po’ della sua anima, negli arpeggi, nelle pennate, nei giochi di corda che un chitarrista di professione deve garantire.
Da Lucio Battisti a Edoardo Bennato, da Fabrizio De Andrè a Fabio Concato, da Paolo Conte a Bruno Lauzi, da Francesco Guccini a Mina, passando per Roberto Vecchioni, Pierangelo Bertoli e tanti altri protagonisti della musica leggera italiana dagli Anni ‘70 e ‘80, non c’è artista che non gli debba riconoscenza.
«Uh, che parolone», si schermisce Mr. Luca.
Allude alla riconoscenza?
«Sì, proprio alla riconoscenza. Quell’impagabile soddisfazione che pochi concedono. Per questo alla mia veneranda età amo lavorare coi giovani. Sono più riconoscenti».
Volete i nomi di questi giovani? Gianluca Grignani, Biagio Antonacci, Fabrizio Moro, Diego Mancino, Gerardina Trovato, Paola e Chiara...
«Basta, basta - sorride Mr Luca al telefono dalla sua casa di Legnago -. Sì, li ho scoperti e prodotti ma è merito loro se poi hanno fatto strada».
A proposito di giovani: che pensa del rap?
«Come tutti i generi, rispecchia la società in cui nasce. La mia, benché turbolenta, era più definita e la musica la raccontava: storie d’amore, di politica, di vita vissuta. Dei rapper mi piaceva Tupac perché raccontava la realtà sommersa e drammatica del Paese delle possibilità, gli Usa. Era vero e denunciava un sistema fallito. Oggi, salvo qualche ragazzo che esce di galera per spaccio e poi si mette a gridare la propria rabbia, la verità è piegata a un solo interesse egotico, che ha forma di euro. E poi, ma questo è un discorso che vale per tutti i generi, manca umiltà: sai cantare o suonare e pensi che il successo ti sia dovuto. Grande fesseria lavorare per il successo. Molto meglio lavorare per crescere».
Che cos’è l’umiltà?
«È l’unico modo per fare bene ciò che si fa e lo è a qualsiasi età. Il mio motto è sempre stato: volare basso e schivare le pietre».
La sera di domani, sabato 18 settembre, alle 21, Mr.Luca suonerà all’Auditorium di Maccagno (ingresso gratuito: scrivere a isadoradellavalle@virgilio.it), penultima delle ventidue tappe del Festival dei Laghi Lombardi, che hanno unito Garda e Verbano, Ceresio e Lario, Iseo e Lago di Varese. Un festival organizzato dal luinese Francesco Pellicini col contributo della Regione Lombardia e dei Comuni che hanno deciso di tornare a investire nell’arte come antidoto morale ai tempi cupi del lockdown. Un festival che si concluderà a Gavirate il 25 settembre con un altro luinese, Matteo Carasini ma che - anticipa Pellicini - «tornerà anche nel 2022».
Mr. Luca, la sua generazione non si stanca mai del palco?
«Quando hai un legame d’amore con la musica, non ti stanchi di comunicarla. Sì, i tendini malati della mano destra mi costringono a qualche pit stop operatorio ma alla fine quale miglior riabilitazione di un arpeggio?».
Mr. Luca come ha cominciato la sua avventura musicale?
«Ho cominciato a 9 anni con una fisarmonica Cucciolo. A 12 anni mia madre mi regalò una Meazziacustica che era la dannazione della mano sinistra, tanto le corde erano distanti dalla tastiera. Ero un ignorantone : mai studiato la teoria per dovere. Però ero un ignorantone curioso e così ho imparato le successioni armoniche, gli accordi e le scale. Queste ultimi ascoltando e riascoltando gli assolo di Eric Clapton, Jimi Hendrix e di Cliff Richards, al secolo Harry Web. Poi, con alcuni amici innamorati come me della musica, mettemmo su un gruppo, oggi si direbbe una cover band, per suonare i pezzi degli Shadow, a cominciare dalla mitica Apache».
Parliamo dei suoi illustri datori di lavoro?
«Lo farò anche a Maccagno, non vorrà bruciarmi la sorpresa?».
Faccia uno sforzo: Edoardo Bennato?
«Edoardo è il rock italiano. Ho registrato con lui Burattino senza fili e Non farti cadere le braccia. Il rock sta nel testo prima che nella musica: è mandare più messaggi in una sola frase. Vasco Rossi è considerato il rocker italiano. Falso. Per me è grandissimo artista pop».
Lucio Battisti?
«Cominciai con la registrazione de L’Aquila ma scoprii solo giunto in studio che era per Bruno Lauzi. Lucio ascoltò da dietro il vetro opaco e non disse niente. Mi spiegarono poi i fonici che era un ottimo segno, perché di solito lui, pignolo e introverso com’era, i chitarristi li sbranava alla prima imperfezione. Era introverso al limite dell’ispido. L’unico che riusciva a farlo sorridere era Toni Cicco, con la sua sfrontatissima verve napoletana. Una mattina, però, registrando Il mio canto libero, suonai un accordo diverso dalla partitura. Lui bloccò tutto e chiese Chi è stato l’americano del c...? Alzai la mano. Venne verso di me e mi chiese Fammelo un po’ risentire. E quel Do 7+ è rimasto lì...».
Francesco Guccini?
«Ho suonato per i suoi primi sette album. Con Francesco, finito il lavoro, non si riusciva a finire un pranzo o una cena: era esilarante. Chiusi quell’esperienza con Argentina. Perché da lì in poi Guccini scelse Flaco Biondini, che di vino e di donne se ne intendeva almeno quanto lui».
Faber?
«Con De Andrè ho avuto fortuna e sfortuna al tempo stesso. Fortuna perché nella sala del Castello di Carimate lavorammo a un gran bel progetto qual è stato Fiume Sand Creek. Sfortuna perché De Andrè in quel periodo della sua vita era parecchio tormentato e pure provato fisicamente. Mi sarebbe piaciuto poter condividere con De André Creuza de mä, perché lì Faber per me aveva raggiunto la maturità umana e artistica del numero uno. Però ho collaborato con Cristiano, suo figlio, grande artista, spesso sottovalutato ma capace di opere elevate: ho suonato per lui negli studi di Rimini, dove fu prodotto l’Albero della Cuccagna, un gioello».
Bruno Lauzi?
«Per me Bruno sta tutto in un aneddoto. Era una mattina di quelle in cui alla Numero Uno si cazzeggiava. Lui era con noi strumentisti a chiacchierare quando entrò Antonella Camera e gli disse: c’è un giornalista che ti cerca. Lui le rispose di farlo entrare e mentre noi musicisti stavamo per uscire dalla stanza, ci disse: no, restate pure. Dopo i salamelecchi di rito, il giornalista fece la prima domanda: Lauzi, i suoi sono pezzi a tinta rossa: spesso c’è sangue, c’è tragedia. Perché scrive testi così? Lui non fece una piega e ribatté: Perché quando sto bene, esco».
© Riproduzione Riservata