L’INTERVISTA
Mi perdo e m'innamoro, l'album in streaming dell’artista rescaldinese
Canzoni di speranza con Franchi & His Band

Che la bellezza salverà il Mondo lo scriveva quasi due secoli fa Fëdor Dostoevskij.
Che per salvare il Mondo, bisognasse conoscerlo, lo affermava, negli stessi anni, Karl Marx.
Renato Franchi (nella foto), settantenne cantautore rescaldinese, di questi due illustri ammonimenti non ha solo fatto esperienza di vita ma anche partitura.
Mi perdo e m’innamoro, la quindicesima e ultima sua opera, musicata con la Renato Franchi & His Band, è un inno alla speranza costruita non sullo slogan massimalista dell’ottimismo becero bensì in settant’anni di vita vissuta intensamente.
E soprattutto con la tensione morale di chi, dinanzi all’ingiustizia - sociale o d’un dolore - anziché imbracciare la scimitarra, s’affida al dialogo, prima di tutto con l’altro se stesso e poi col Mondo.
In otto canzoni costruite con l’arte mutuata da una vita in musica, cioè da incontri con artisti del calibro di Massimo Bubola, Claudio Lolli e tanti altri, più o meno noti, cesellatori della canzone d’autore italiana, Franchi è riuscito nell’impresa non comune di dare aria a testi impegnati anche quando sembrano scherzare, sposandoli a costrutti musicali d’assoluto livello (Pensieri a dondolo con la scala di violino in sessantaquattresimi eseguita alla perfezione daDam Shim Sara Galasso).
Da oggi, l’album - pubblicato da Latlantide di Bergamo e distribuito da Egea Music - è on line su tutte le piattaforme streaming.
Dai concerti con la Kanzonaccio Band nella Germania Est del Muro allo streaming audio: è passato il tempo, non il leit motiv.
«Il filo rosso - così Franchi - è e resta sempre quello dell’attenzione all’uomo, declinato nelle sue urgenze. Prima di tutto, quella di amare, perché questa è l’esperienza senza la quale non ci si può dire uomini. Dopo di che non dimentico l’affinità con la poetica di Fabrizio De Andrè, rafforzatasi già ai tempi del Teatro La Torre di Rescaldina, laddove tanti big della canzone italiana venivano a provare.
Allora ero sindacalista della Cgil, una missione più che un incarico, un lavoro svolto con passione in difesa dei diritti di chi non aveva la possibilità di rivendicarli e quando potevo assistevo, col mio amico Gianfranco (D’Adda, percussionista per trent’anni di Franco Battiato e oggi della band di Franchi, ndr) a quella meraviglia che erano le prove di Faber».
Del resto l’insussistenza del confine tra sindacalista e cantautore lei lo tracciò con la Canzone per Ion Cazacu, l’operaio bruciato vivo dal suo datore di lavoro a Gallarate.
«Quella vicenda mi sconvolse perché è l’emblema di tante storie di sopraffazione violenta che purtroppo si moltiplicano anche oggi».
In quest’album spicca la varietà dei colori nell’esperienza umana del perdersi e del contestuale innamorarsi. Già innamorarsi di chi?
«Di una donna, di un’idea, direi in una parola della Bellezza. Perdersi è nell’esperienza umana un punto di partenza. Ce l’ha spiegato Dante nella sua selva oscura. Da qui bisogna ripartire e la risorsa cui possiamo attingere è proprio la capacità che ciascuno di noi ha d’innamorarsi. Di costruire speranza».
Perché il richiamo alla grande musica, esplicito in Mi perdo e m’innamoro (il blues di Mussy Waters), pezzo che dà il nome all’album, Una radio suona (il Bruce Springsteen di The Promised Land), La senti Zaz (la cantante francese Isabelle Geffroy) e Stringimi forte (l’unica cover, sullo spartito di Giorgio Conte)?
«Perché non c’è musica senza musica: siamo tutti legati a una grande partitura, laddove la grandezza dei più talentuosi s’armonizza con ogni singola nota dell’insieme, anche la più piccola. Ecco perché la speranza non muore mai».
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