L’EVENTO
Don Carlo tra destino e potere: apertura sontuosa alla Scala
Il contorno: proteste in piazza contro le guerre, segnali rossi di ribellione ai femminicidi all’ingresso, grida isolate piovute giù dal loggione

Il capello l’ha colto Roberto Bolle. Per il re della danza «alla maestosità della scena ha fatto difetto una coreografia un po’ statica». Ma anche il ballerino piemontese ha confermato il giudizio unanime sulla prima del Don Carlo che ieri, giovedì 7 dicembre, ha aperto la Stagione della Scala di Milano regalando quattro ore di spettacolo di livello assoluto: «Bellissime le scenografie, un allestimento elegante e gli interpreti sono stati straordinari». L’evento è stato straordinario pur rispettando i canoni del copione fuori e dentro il teatro: proteste in piazza contro le guerre e le loro pretestuose ragioni, segnali rossi di ribellione ai femminicidi all’ingresso, le grida, isolate, piovute giù dal loggione - «Viva l’Italia antifascista» e «No al fascismo» - subito dopo l’Inno di Mameli, il saluto del presidente del Senato Ignazio La Russa al Maestro Riccardo Chailly, dopo il primo atto, cui però non ha fatto seguito il saluto alle maestranze per la preannunciata volontà dei sindacati («nessun incontro con chi non ha mai condannato il fascismo»).
Del resto, il Don Carlo è opera attraverso la quale Giuseppe Verdi sfoggiava la tormentata relazione dell’umanità col senso del potere.
Il potere tra padre (l’arcigno anche nella tenuta vocale, Filippo II impersonato da Michele Pertusi, all’inizio del terzo atto condizionato però da un improvviso problema alla gola) e figlio (tormentata e superba insieme la resa di Francesco Meli).
Quello esercitato dalle convenzioni tra uomo e donna (non sarà divina come Maria Callas ma regale al limite dell’imperiosa lo è di certo Anna Netrebko, nelle contraddittorie e travagliate sfumature femminili di Elisabetta).
Quello delle trame ciniche della politica (impeccabile Luca Salsi nel dar voce ai tormenti libertari di Rodrigo, marchese di Posa).
Quello della relazione tra la Chiesa e lo Stato, trasfigurato dal regista Lluis Pasqual in rapporto tra sacro e profano (Jongmin Park, chiamato all’ultimo a sostituire l’indisposto Ain Anger nell’impersonare il Grande Inquisitore oltreché a dare spessore alla figura del frate-Carlo V, sostituito dal convincente Huanhong Li nel quarto atto).
Quello della disillusione amorosa che ha il sapore della sconfitta irrimediabile (non solo di Filippo II ma anche della Principessa d’Eboli con la voce sensuale di Elīna Garanča).
E quello che si agita nel destino di ogni uomo che possa sperimentarne, suo malgrado, il fascino quando diventa devozione assoluta a una logica perversa perché disumana ma anche scelta di ribellione a costo della vita in nome di valori più nobili. Più liberali. Più umani.
In questo senso il Don Carlo diretto - meglio condotto magistralmente in porto tra le ondate imprevedibili dei malanni di stagione - dal Maestro Riccardo Chailly s’è rivelato ieri sera in tutta la sua solenne, rigorosa, essenziale potenza.
A ricordare che «il trono piegar dovrà sempre all’altar» sul quale dispone a suo piacere i destini dell’umanità chi si sente investito dal potere divino dimentico che «solo in cielo si può trovare pace».
Un monito tragico cui Verdi aveva affidato la forma del kolossal - la Grand-Operà del 1867 - ma anche catartico, a patto di coglierne la portata morale senza indugi, né ipocrisie.
Nella platea e sui palchi uomini e donne di potere ieri sera non mancavano: non resta che sperare, in attesa di quella pace ribattezzatalivella dal Principe de Curtis in arte Totò, che il quarto d’ora di scrosciar di mani per un cast eccezionale - come pure regia, direzione d’orchestra, scenografia (Daniel Bianco), costumi (Franca Squarciapino) e mettiamoci anche lo sforzo nazional-popolare della Rai che ha onorato alla grande la lirica italiana freschissima new entry nel patrimonio immateriale dell’Unesco - si trasformino in 365 giorni di applausi per l’uso che sapranno fare del proprio potere. In nome di quella pax che Verdi agognava nella sua idea di unità delle diversità e per la quale vale la pena di combattere ogni giorno: «Io morrò - prima o poi questo è il destino di ognuno - ma lieto in core».
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