L’APPELLO
«Mio padre all’ergastolo ma non è un assassino»
Istanza di revisione del processo per un delitto di mafia del 1987

«Mio padre sta scontando la pena dell’ergastolo per un duplice omicidio che non ha commesso. Purtroppo il processo è stato fatto a un cognome e non a una persona, perché il suo, Emmanuello, in Sicilia era un cognome pesante. Da qui un’ingiustizia palese: chiunque legga gli atti della sua vicenda giudiziaria rimane incredulo. E per questo io e i miei familiari non ci arrendiamo: continueremo a batterci fino a quando mio padre non uscirà dal carcere e potrà trascorrere la sua vecchiaia insieme alla mamma. Libero».
Orazio Emmanuello ha 53 anni e vive con la famiglia a Varese dal 1989. Suo padre, Emanuele Emmanuello, oggi settantaduenne, nella città giardino era un imprenditore edile incensurato, fino a quando, nel 2016, diventò definitiva una condanna all’ergastolo per un duplice omicidio avvenuto l’antivigilia di Natale del 1987 a Gela. Quel giorno in periferia, in un cantiere edile, morirono, vittime di una sparatoria, Salvatore Lauretta e Orazio Coccomini, e la città fu travolta da un vortice di sangue e morte - una guerra feroce tra Cosa Nostra e Stidda - che in tre anni provocò cento morti ammazzati. Oggi gli atti giudiziari ci dicono che Emanuele Emmanuello non sparò, ma fece da “vedetta” per i killer, e per questo merita la pena dell’ergastolo, che sta scontando nel carcere di Saluzzo. Ma la sua famiglia - moglie e tre figli - non crede alla verità giudiziaria, ha già presentato due istanze di revisione del processo, che sono state respinte, e ora riprova con una terza, confezionata da nuovi legali, gli avvocati varesini Giovanna Rovera e Fabio Rizza. Una battaglia che dall’inizio è costata moltissimo ai familiari dal punto di vista psicologico ma anche finanziario, con spese vicine al milione.
Nelle prime due istanze di revisione erano state sottoposte ai giudici della Corte d’Appello di Catania questioni che la famiglia riteneva già decisive. Come il fatto che gli stessi testimoni in due diversi tronconi del processo per la morte di Lauretta e Coccomini, uno con rito abbreviato e l’altro con rito ordinario, furono ritenuti non credibili e poi credibili (con assoluzione di parte degli imputati e condanna di altri, tra i quali Emmanuello). O come il fatto che l’auto usata dalla “vedetta” sarebbe stata la Fiat 127 bianca di Emmanuello: peccato però che quella macchina fu acquistata solo nel 1988, inizialmente era blu e solo in seguito fu dipinta di bianco. O come il fatto che all’epoca Emmanuello lavorava alla costruzione della centrale atomica di Montalto di Castro e ogni weekend stava a Gela con la famiglia poco più di 24 ore: quindi difficilmente avrebbe potuto organizzare un’operazione complessa come quella del 23 dicembre 1987.
Ma ogni nuova richiesta di revisione deve presentare elementi nuovi, ed ecco allora la questione sollevata oggi dagli avvocati Rovera e Rizza, e sostenuta da una perizia: «Bisogna tenere presente che quel giorno ci doveva essere un altro omicidio, nel centro di Gela, che fu annullato all’ultimo momento - spiegano i legali - e che si dice che il nostro cliente doveva fare da “vedetta” per questo omicidio, ma com’è possibile? I due eventi dovevano avvenire infatti alla stessa ora. Il signor Emmanuello, se realmente attivo come “vedetta” nel tentativo del primo omicidio, poi non avvenuto, non avrebbe potuto contemporaneamente presentarsi, sempre nel ruolo di “vedetta”, ad effettuare il secondo omicidio nello stesso orario».
In attesa di una risposta dai giudici di Catania, le condizioni di salute del detenuto sono peggiorate. «Emmanuello è stato assolto in un altro procedimento perché i testi sono stati ritenuti inattendibili e in altri c’è stato il non luogo a procedere perché estraneo ai fatti. Ho già scritto due volte al presidente della Repubblica e sono pronta a scrivere ancora per chiedere la grazia - conclude l’avvocato Rovera -. Il mio cliente non vuole risarcimenti, vuole tornare a casa».
© Riproduzione Riservata