L’INCONTRO
Naoya Yamaguchi presenta il teatro Noh in foto
Il fotografo giapponese torna alla Sala Impero di Gallarate per il suo libro “Messaggero da un altro mondo”. La sua intervista alla Prealpina

Un viaggio nella più antica arte tradizionale nipponica, il teatro Noh. Lo consente il libro fotografico Messaggero da un altro mondo (solo 500 copie, un centinaio per l’Italia), autore il fotografo giapponese Naoya Yamaguchi. Già ospite al Maga nel 2019 con la mostra The Japonism torna a Gallarate, alla Sala Impero di via Foscolo. Qui sabato 18 gennaio alle 16.45 presenterà la nuova opera, con relativa mostra fotografica. L’incontro, organizzato dalla piattaforma La Scintilla, sarà presentato dallo scrittore Adelfo Forni. Giunto in Italia con la moglie Chikako Takaki, Yamaguchi sarà affiancato dal designer gallaratese Christian Di Liberti, suo collaboratore e interprete. «Con tale opera abbiamo portato per la prima volta i personaggi del Noh, impersonati con maschere e costumi di centinaia d’anni dal maestro Chitoshi Matsuki, in un ambiente esterno verosimile ai fatti narrati, fuori dal palco. Una cosa “eretica”», dice Yamaguchi: «Il maestro inizialmente era restio. Poi ha acconsentito per far conoscere tale arte all’estero».
In cosa consiste il Noh?
È un’arte unica al mondo, in cui gli attori indossano maschere che non li rendono più umani. Quattro i personaggi: dei, demoni, fantasmi e spiriti, questi ultimi assimilabili ad angeli. È nato attorno al 1400, coi combattimenti feudali dei samurai. Nessuno sapeva quando sarebbe morto: si è creata una spiritualità da cui sono promanati questi esseri ultraterreni, suscitanti un misto di paura e speranza. Il Noh si basa su buddismo e scintoismo, nati in India e passati per la Cina: un’influenza che proviene fuori dal Giappone, ma le sue storie sono legate prevalentemente a questo.
Altre particolarità?
Le storie rappresentate non riguardano azioni presenti o future ma solo passate, fornendone una spiegazione. Tra palcoscenico e spettatori vi è un ulteriore piccolo palco non visibile, considerato divino: possono accedervi solo gli attori. Quando vi salgono non risiedono più in un tempo umano ma è come se fossero in un sogno. Il Noh rappresenta la società giapponese: ogni personaggio sotto la maschera è un altro, con un modo di pensare diverso. Simboleggia il conflitto tipico dei giapponesi tra ciò che esprimono esteriormente e ciò che provano veramente.
Quando è nata l’idea del libro?
Da bambino avevo visto il teatro Noh ma non l’avevo capito, poi l’ho messo da parte fino alla tragedia di Fukushima del 2011. Gli stranieri abbandonavano il Paese, ho sentito la necessità di diffondere un diverso sguardo sul Giappone. Ho ripreso e studiato il Noh capendo la sua importanza, desiderando divulgarlo all’estero. Spesso si riduce la nostra cultura a manga e anime, ma c’è pure altro.
Durante lo shooting ci sono stati imprevisti?
Cito due episodi. Al tempio di Dojoji dovevamo realizzare la foto di un demone con una campana. Era pieno di turisti, quando hanno visto il maestro travestito si sono accalcati attorno e non è stato possibile lavorare quasi fino alla chiusura. Temevamo, con l’attore stanco, una foto di scarsa qualità: è riuscito invece a emanare una gran forza. Per le foto con un ciliegio ci sono voluti due anni per trovare l’albero, altri tre per attendere la fioritura. Quando ci siamo ritrovati sul luogo v’erano molte persone a fare dei picnic, dei bimbi si sono spaventati vedendo il costume del demone.
Lei presenta il suo libro in Italia. Com’è nato il legame col nostro Paese?
Ho sempre amato il talento e la sensibilità degli italiani per arte e scrittura. Quando io e mia moglie ci siamo sposati abbiamo fatto qua il viaggio di nozze. In un paesino vicino a Firenze sono rimasto colpito da una mostra fotografica, con tante persone che aiutavano ad allestirla. Dopo quell’episodio ho desiderato realizzare una mostra qua: prima occasione la Biennale di Roma nel 2013.
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