ARTE
Un dialogo denso e poetico

Densità. Se dovessi definire con un solo termine Il velo del simbolo e del canto visivo, la mostra di Lara Martinato e Alfredo Rapetti Mogol allestita a Palazzo Marliani Cicogna a Busto Arsizio, a cura di Duccio Trombadori, direi che è una mostra densa. Densa per le stratificazioni intellettuali che la percorrono (filosofiche, alchemiche, religiose, esoteriche…); e per i richiami storico-artistici: l’antichità, il medioevo, il Rinascimento per la Martinato; più legati al ‘900 quelli cui si rivolge Mogol (poesia visiva, informale segnico, arte concettuale).
Sono segni pseudocalligrafici quelli che fanno vibrare le superfici monocrome di Mogol e assimilano ciascuna di esse ad una sorta di diario personale il cui unico scopo, però, è quello di annotare non un ricordo specifico, ma la necessità stessa del ricordo. Sopra questa grafia indistinta, a formare una frase minima, l’artista stampiglia lettere leggibili, divertendosi ad accorparle, come in un gioco enigmistico, secondo regole arbitrarie: è l’aspetto che, per primo, attira il fruitore.
Le opere della Martinato si caratterizzano, invece, per un fondo oro sopra il quale sono dipinti dodecaedri platonici, lo spazio-tempo einsteniano, dettagli di quadri antichi, figure umane. Tutto ciò, come il gioco di Mogol, si sovrappone a questo sfondo indistinto. Deve essere da questa sovrapposizione che il curatore è stato indotto a parlare della presenza nelle opere di un senso originario, “presemantico”; i lavori sarebbero suggestioni visive della ricerca di una radice espressiva che precede la connessione significato-significante.
Seguiamo la traccia del curatore. Notiamo che sopra questo magma indistinto si fa plasticamente visibile una serie di ‘sovrastrutture’ (le frasi o i disegni) che copre gli sfondi monocromi, quasi a limitare la spaventevole potenza dell’indistinto. Rimane, tuttavia, un fatto, formale prima ancora che contenutistico. Frasi e disegni appaiono come entità estranee agli sfondi; la composizione ne risulta inasprita. Una scelta stilistica non scevra, inoltre, di conseguenze sul piano semantico: così, il numinoso non fa capolino dall’originarietà. È per questo che le opere migliori sono quelle in cui la monocromia rimane protagonista.
L’installazione di 21 tavole con ectoplasmatiche figure umane di Lara Martinato e un’‘acquasantiera’ di Mogol: una resa formale più intonata permette ad ogni aspetto del caos, razionale e non, di affiorare. Le opere, infine, sono esposte senza indicazione di titolo. Scelta rischiosa: al cospetto di opere così concettose il fruitore, già impegnato in un difficile lavoro di decifrazione, è privato dell’appiglio fornito dal titolo.
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