SUL PALCO
Oscar Wilde, un intreccio di identità fasulle e battute fulminanti
Al Teatro Parenti di Milano, dal 4 al 9 novembre, “L’importanza di chiamarsi Ernesto” con la regia di Geppy Gleijeses
Ritratto brillante e irriverente di una società che si riflette, spesso inconsapevole, nelle proprie ipocrisie, nella traduzione di Masolino D’Amico, L’importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde è nella Sala Grande del Teatro Parenti di Milano dal 4 al 9 novembre nella nuova edizione con la regia di Geppy Gleijeses, che contribuisce a far risaltare un testo che, a più di un secolo dal debutto londinese, conserva intatta la sua vivacità e la sua sottile carica corrosiva. Una ripresa, dopo la versione del 2000 diretta da Marco Missiroli e nella quale Gleijeses interpretava John Worthing, che è un omaggio a un grande classico della letteratura teatrale, ma anche testimonianza della sua attualità capace di mettere in discussione in maniera ironica temi che attraversano il tempo, dall’identità alla verità.
Capolavoro di Wilde, fin dal titolo originale, The Importance of Being Earnest, ruota attorno a un gioco di parole che sfrutta l’assonanza tra il nome proprio, Ernesto, appunto, con cui si presenta il protagonista, e l’aggettivo che significa serio, zelante. Un titolo che sottolinea la volontà di critica dell’autore all’ipocrisia della società vittoriana che reputa l’apparenza più importante della sostanza. Un vero e proprio lavoro di umorismo e di satira costruito da Wilde, dove la trama è solo apparentemente leggera, ma in realtà pone una riflessione acuta sull’epoca e sulla società, presentandosi ancora attuale. Nella comicità si mettono in discussione le convenzioni, i ruoli sociali. Con una grande Lucia Poli, che dà vita a una Lady Bracknell imponente e irresistibile, perfetta nel restituire, con ironia affilata, le contraddizioni di un mondo ossessionato dalle apparenze, Giorgio Lupano, Maria Alberta Navello, Luigi Tabita, Giulia Paoletti, Bruno Crucitti, Gloria Sapio e Riccardo Feola, la traduzione di Masolino D’Amico, unita alle scene di Roberto Crea, ai costumi di Chiara Donato e alle musiche di Matteo D’Amico, offre un equilibrio tra leggerezza e profondità. E il salotto borghese e il giardino della Manor si trasformano in luoghi ambigui, eleganti e pieni di insidie dove prende corpo il gioco di Wilde: un intreccio di identità fasulle, verità taciute e battute fulminanti. E se ad accompagnare il titolo, Wilde volle la frase “«”a Trivial Comedy for Serious People”, “una commedia futile per persone serie”, molti critici accompagnano invece questo testo di Wilde definendolo «la commedia perfetta».
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