L’INTERVISTA
Diabolik, la mente è Patricia
Martinelli racconta le sue storie del fumetto. Eva Kant? «Le sorelle Giussani la volevano intelligente»

La giornalista Patricia Martinelli è solita trascorrere le estati - lo fa sin da quando era bambina - a Porto Ceresio, in una bella villa costruita dai genitori tra Cà del Monte e il centro.
Ha lavorato per Mondadori, Rizzoli e la casa editrice Universo, ha diretto Diabolik e tuttora ne scrive le storie. Fa parte della giuria inediti di GialloCeresio.
Di cosa si occupava nel giornalismo?
«Di attualità e dei problemi di coppia per Ia Donna. Mi trovavo di fronte a fatti di vita inimmaginabili. Scrivevano da paesini donne talmente maltrattate con una vita terrificante senza nessuna possibilità né culturale né economica di poter evadere.
Non si poteva suggerire di scappare da una realtà simile a persone che non sapevano scrivere in italiano né mai preso un treno e avevano vissuto soltanto tra suoceri cattivi, mucche e polli. Per me era terribile perché non sapevo come aiutarle».
Erano tutti giornalisti in famiglia?
«Si, i miei genitori e anche il papà di mia mamma, Mario Massai, era giornalista al Corriere della Sera. Aveva un suo aereo personale con cui andava a fare i reportage.
Era il mito di famiglia, è morto prima che io nascessi. Anche mio padre scriveva per il Corriere della Sera, ne era molto orgoglioso. Da ragazzina lo raggiungevo dopo il liceo, nell’ufficio di fronte a lui c’erano Dino Buzzati e Enzo Biagi. Le mie conoscenze da ragazza sono state molto privilegiate, belle e interessanti».
Quindi il giornalismo è stata una scelta naturale?
«Io sono stata sempre molto determinata. Da ragazza non volevo fare la giornalista ma l’interprete. Avevo le idee chiare, conoscevo l’inglese e francese perché come tutte le ragazze di buona famiglia milanese ero andata a studiare all’estero.
Ero indecisa tra russo e arabo, due lingue che pochi conoscevano e che mi avrebbero facilitato nel trovare un lavoro. Grazie a un bando culturale del Ministero degli Esteri ero partita per la Russia barando con una crocetta sulla conoscenza della lingua russa. Ho viaggiato per tutta l’Unione Sovietica, dall’Asia alla Siberia. A vent’anni ero a Samarcanda e sul Mare del Nord con le onde ghiacciate, felice della vita che conducevo. Mi sono laureata a Mosca. Oggi però sceglierei l’arabo perché sono incuriosita da questi nostri vicini di cui sappiamo poco ma parliamo tanto».
Come è arrivata a Diabolik?
«Le sorelle Giussani erano amiche di famiglia e spesso venivano a cena a casa nostra. Una sera mi ero lamentata perché avevo una collaborazione con la rivista Mondadori Due Più solo al mattino e dovevo trovare un altro lavoro per il pomeriggio. Il giorno dopo mi avevano telefonato con il loro forte accento milanese per propormi di provare a lavorare per loro.
Erano così precise, per scrivere le storie dovevo sempre farmi aiutare da qualche tecnico tra i quali mio marito ingegnere. Una volta volevo che Diabolik rubasse una cassaforte da sotto una nave e mi recai alla capitaneria di Porto di Livorno. Tutti gli ufficiali intorno a me si erano messi a studiare come bucare la nave e sfruttare i vuoti d’aria. La gente in genere si diverte ad aiutarmi, se devo scassinare una banca vado in banca a chiedere come si fa. Non scrivo cose vere, ma devono essere verosimili per far sì che nessun lettore possa obiettare.
Sono fantasiosa ma molto precisa. Volevo però fare la giornalista vera, fare l’esame di Stato e diventare professionista. Per raggranellare qualche soldo scrivevo le storie di Diabolik e quando le Giussani si sono ritirate mi hanno chiesto di diventare direttore editoriale. Ho lavorato tanto, sfornavo una storia dopo l’altra e ne scrivo ancora».
Cosa pensa dei film?
«Sono errori perché le storie non sono mai trasportabili. Il film di Mario Bava era abbastanza bello ma non c’entrava niente con Diabolik. Lui era un ragazzino e Eva Kant una maliarda. Invece è una bellissima donna ma di gran classe. Nei film la fanno sempre scosciata mentre le Giussani la volevano intelligente al pari con Diabolik. Io la penso come loro».
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