LA PERIZIA
«Maja capace di intendere»
Uccise la moglie e la figlia, tentò di uccidere il figlio: per lo psichiatra non ha patologie

Non ha neppure l’alibi - morale e giuridico - per spiegare la mattanza del 4 maggio dell’anno scorso: Alessandro Maja è capace di intendere e di volere. Nei giorni scorsi lo psichiatra Marco Lagazzi ha depositato la perizia disposta dalla Corte d’Assise dalla quale non risultano patologie mentali tali da ritenerlo irresponsabile degli omicidi della moglie Stefania e della figlia Giulia e neppure del tentato omicidio del figlio Nicolò, sopravvissuto ma penalizzato a vita dai danni provocati dalle martellate del padre.
L’esito dell’accertamento verrà discusso il 19 maggio in tribunale a Busto e non è da escludere che i difensori del cinquantasettenne replichino con conclusioni di segno opposto.
Sembra trovare conferme l’ipotesi che si era fatta strada nel corso delle indagini: il geometra che si spacciava per architetto nei mesi precedenti al massacro si era convinto che i debiti lo avrebbero travolto insieme alla sua famiglia. Buchi finanziari che lo avrebbero risucchiato per far fronte a una causa civile, derivante da un suo errore di progettazione.
Non è chiaro se i suoi timori fossero fondati, se davvero all’orizzonte ci fosse il rischio di trascinare Stefania e i ragazzi nella povertà, di diventare la chiacchiera del paese, di perdere il prestigio e l’approvazione della comunità.
Ma non è neppure importante, perché comunque per lui era uno scenario ineluttabile e insostenibile. Per un paio di mesi meditò il suicidio, poi avrebbe preso il sopravvento lo scrupolo: i presunti debiti sarebbero ricaduti sulla sua famiglia. La soluzione definitiva? Uccidere tutti e poi togliersi la vita.
Il piano non funzionò quindi per due motivi: lo spirito di autoconservazione, che a quanto pare gli bloccò quella autolesionistica, e la resistenza di Nicolò, che lui credeva morto e che invece non lo era.
Nessun cortocircuito psichiatrico, neppure un raptus o una psicosi. Il 4 maggio dell’anno scorso Alessandro Maja agì con lucidità. E oggi, nel carcere di Monza, non pare avere grandi difficoltà a intrattenere rapporti con gli altri, seppur di livello basico. L’espressione soporosa e lo sguardo vitreo con cui si è presentato in aula nel corso del dibattimento? Potrebbero essere gli effetti di un sedativo oppure della miopia che non gli consente di mettere a fuoco ciò che gli sta davanti. Del resto, in una delle tante lettere che ha scritto a Nicolò e ai parenti c’era la richiesta di un paio di occhiali.
Ma nessuno va a trovarlo, nemmeno il fratello con cui tranciò i legami una ventina di anni fa.
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