L’INTERVISTA
La vita? Un cartoon
Baccini: non cambio. E penso al cinema
Trent’anni dopo, lo spirito è lo stesso, da perfetto compagno di banco di tutti e di nessuno: Francesco Baccini ha quasi 60 anni e ne festeggia 30 da istrionico chansonnier, irriducibile alchimista della malinconia da far fiorire in sorriso (e stasera sarà sul palco del teatro Pasta).
Come? Col pianoforte, lo strumento che - cantava lui nel 1989 - «non è il mio forte». E meno male.
Allora, Baccini, la vita è sempre un cartoon?
«Certo che sì. Anzi è ancora di più: è cinema, la mia seconda vita. Stiamo studiando l’uscita di Credo in un solo padre di Luca Guardabascio. Ci recito e ho scritto la colonna sonora. Poi ho partecipato a una pellicola su Enzo Jannacci, intitolata L’ImmEnzo,e ho scritto la musica dei titoli in un docufilm dedicato a Francesco Nuti. Infine sto ultimando un docufilm su... me stesso, diretto da una regista francese».
La musica non manca mai.
«Ho detto seconda vita. La musica viene prima. Oggi però pubblicare un album mi diverte come guardare una telenovela. Ho tanti inediti ma è cambiato tutto. Non ha più senso competere con un mercato impazzito».
In che senso?
«Che la musica la fai sul palco, con chi l’apprezza o la vuole scoprire. Oppure la condividi con amici, con professionisti o con entrambi. O con Sal, il bassotto, l’unico dei miei tre cani autorizzato a entrare in casa: è il più piccolo di stazza tra Choco e Lola ma comanda lui».
Siamo seri: trent’anni fa dalla città di Luigi Tenco, di Fabrizio De André...
«Di Paganini...».
Certo, di Niccolò Paganini e di tanti altri, lei se ne esce con Cartoons e spariglia le carte: l’intimismo di Lauzi, Endrigo, Fossati... diventa dissacrazione di luoghi comuni, con un richiamo tanto preciso quanto sfacciato ai canoni della musica leggera. Che le era saltato in mente?
«Che m’ero stancato di fare l’impiegato dopo aver fatto il camallo per anni. Non volevo fare la fine di Fantozzi. Amavo la musica classica, tanto che volevo dar vita a un duo clavicembalo-liuto. Non che fossi un integralista della classica, ma ascoltavo Emerson Lake & Palmer, Jethro Tull e ovviamenti i cantautori italiani, da Faber a Enzo Jannacci, da Angelo Branduardi a Luigi Tenco, direi il mio spirito guida. L’ironia che si trova nelle sue canzoni, la sua essenza di caciarone che appariva introverso solo a chi non lo conosceva, sono la mia fonte d’ispirazione. Fors’anche di più. Ho un aneddoto: alla presentazione di Cartoons mi ritrovai, nel pubblico, Fabrizio De André. Fu il primo incontro con lui. Mi disse che m’aveva visto parlare in una trasmissione televisiva e che gli ricordavo Tenco per come parlavo e gesticolavo. Divenni ospite di casa sua. Chiacchieravamo e ogni tanto appariva Mauro Pagani, il guru della Pfm, che mi guardava strano».
Che avesse già capito tutto?
«Può darsi. Però fu proprio quel riconoscimento di Faber a darmi la convinzione che avrei dovuto darci dentro. E nemmeno a farlo apposta, poco dopo, era il 1989, è arrivata la prima Targa Tenco (per l’opera prima, proprio Cartoons, ndr mentre nel 2006 gli toccò per Baccini canta Tenco)».
Eppoi?
«Poi ho bissato col Pianoforte non è il mio forte e quindi ho scritto Nomi e cognomi».
Farlo è pratica rischiosa alle nostre latitudini, soprattutto mettendoci di mezzo Giulio Andreotti e Renato Curcio.
«Pericolosa se si ha a che fare con quelli più realisti del re, i baciapile, gli zerbini, i lecchini... L’album è stato un successo. Andreotti stesso mi scrisse una lettera di congratulazioni».
Però lei la Rai non l’ha più vista se non alla tv.
«Inciampi del mestiere di chi vive facendo quel che si sente di fare. Non ho rimpianti: quell’album è stato un successo e uno spartiacque. Mi ha costretto a misurarmi con altre situazioni, a trovare stimoli diversi dalla comparsata in televisione».
Tanto più che le dinamiche commerciali stavano già subendo una rivoluzione.
«Più che altro una guerra atomica. Oggi ci sono sedicenni che cantano filastrocche senza senso sulle carote e fanno milioni di ascolti tra i loro follower ma alla fine sono vittime d’un sistema che illude e usa. Oggi va la Trap che è la pietra tombale della musica, così come il Punk lo è stato del Rock, perché è fatta di suoni artificiali e di testi composti con vocabolari di cento parole a dir tanto. Chiunque può far successo e certi youtuber lo dimostrano: a tanti fanno ridere, a me mettono tristezza. Sarà che ci sono arrivato a 30 anni ma prima di salire su un palco, devi andare a scuola, devi studiare, devi impegnarti».
Eppure il mercato è fiorente di talent. E di scouter.
«Segno che ci stiamo rimbecillendo. Sfera Ebbasta fa il giudice? E chi oggi non ha pubblicato un libro e chi non ha piazzato la sua canzone su un social? Ma nella maggior parte dei casi è come se io andassi a insegnare medicina solo perché ho comprato le medicine in farmacia. Diciamolo: oggi governano quelli che a scuola erano gli ultimi della classe e il mondo s’è adeguato. Ecco perché a Sanremo Rita Pavone ha ancora senso».
Il suo pubblico com’è?
«Eterogeneo per sesso e per età. Me ne stupisco ogni volta ma del resto se la mia musica, come quella di altri colleghi, non passa di moda è anche perché alla fine la qualità conta e a maggior ragione se ho come concorrente un adolescente che mi spiega la sua vita col rap e guarda ai contatti sul web. Però mi rendo anche conto che non è facile: viviamo in una società che tratta tutti da prodotti da comprare e vendere e i giovani sono l’anello debole. C’è chi li bolla come bimbiminchia ma seppure fosse così, vorrebbe dire che i minchioni sono i loro genitori».
Lei che padre è?
«Cerco d’essere quello che è stato mio padre per me. Lui s’era fatto due anni di Mauthausen, poi ha lavorato all’Ansaldo. È morto a 50 anni che ero ragazzo. Trasportava mezzo bue da solo e aveva due braccia così. Bastava uno sguardo per tracciare il confine tra ciò che potevo o non potevo fare. Mio figlio oggi ha 21 anni e vuole fare il dee-jay. È un ragazzo che riconosce quel confine e sono fiero di lui».
Vive con lei?
«No. Io continuo a stare da solo, almeno come residenza (sorride)».
Tanto per parafrasarla, non ha più voglia d’innamorarsi?
«Certo che sì. Come quando suonavo in quel locale di Milano, in via Torino. Dormivo in macchina. Un giorno, ricevetti una proposta: ho comprato un pianoforte a coda, è su a casa mia, vuoi venire a vivere da me?».
Com’è finita?
«Abito a Imbersago con Lola, Choco e Sal. E sto benissimo».
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