IL PERSONAGGIO
Se avessi avuto il posto fisso alla Franco Tosi...
Giacomo Poretti si racconta a Lombardia Oggi: è un'arte non passare dal comico al ridicolo

Giacomo Poretti ha 56 anni e da almeno venti è un comico di successo. Ne è passata di acqua sotto i ponti dai primi monologhi e dalle prime sperimentazioni con Aldo Baglio e Giovanni Storti, che già facevano coppia e con lui, al Caffè Teatro di Verghera di Samarate, diventarono un trio: le «Galline vecchie fan buon brothers». Ora Giacomo ha scritto un libro ma se vi aspettate di leggerci questa storia sbagliate: è andato più indietro, più a fondo dentro di sé. Non ha raccontato la solita biografia del cabarettista che dopo tanta gavetta è diventato famoso, ma ha messo nero su bianco gioie e dolori dei primi venticinque anni della sua vita, con leggerezza, ironia, intelligenza, senza mai cercare l'applauso. Ha aperto il sipario della sua anima e insieme di un'Italia che non c'è più: gli anni Sessanta in un piccolo paese in bilico tra la provincia di Varese e quella di Milano, la sua Villa Cortese «caput mundi», dove è vissuto quando era «Alto come un vaso di gerani» , come si intitola il libro pubblicato da Mondadori (pagg. 144, 16 euro). E dove, ora che è alto 1 metro e 58 centimetri, torna una volta al mese a trovare la mamma, e il 2 novembre ha portato i fiori sulla tomba del papà.
Giacomo, come è nata questa voglia di guardare indietro addirittura agli anni dell'infanzia?
«Questo libro è nato dal desiderio intimo di raccontare a mio figlio come sono andate le cose nella mia vita, un diario da consegnargli quando comincerà a fare domande».
È "il" libro o il primo libro?
«Non lo so se sarà il primo o l'unico, so che è nato non per un gesto di vanità e mi ha fatto scoprire tante cose dentro di me. Se mi proponessero di raccontare come sono arrivato al successo lo troverei poco interessante, mi piacerebbe di più un altro romanzo».
Lo covavi da tanto o è nato di getto?
«Da un paio d'anni avevo messo lì una quarantina di pagine, ma devo dire grazie al direttore della Stampa Mario Calabresi che l'anno scorso pubblicò per la prima volta un mio intervento in prima pagina e mi affidò una rubrica. Mondadori mi ha notato. Scrivo anche per Popoli la rivista dei gesuiti dove iniziai con un articolo sull'elezione di Barack Obama, giusto quattro anni fa».
Altri giornali nel suo passato?
«Certo, non dimentico. Fu la Prealpina il primo giornale in cui mi fu data l'occasione di scrivere dei piccoli pezzi: era il 1992 e su Lombardia Oggi inaugurammo L'Angolo della Risata a cura di Galline vecchie fan buon brothers, il primo nome del trio a cui partecipava anche Marina Massironi, ma a scrivere ero sempre io. È stata una bella esperienza».
Nel libro racconta che è nato in un cortile dove c'era un bagno per cinque famiglie: ora che tutto è cambiato come si guarda indietro?
«Vedo tutto molto positivo, ho ricordi cari, intensi, sembrano le cose più significative della vita. Certo sono stato testimone, come tanti altri, di una rivoluzione impressionante nel modo di vivere. Io racconto di come ci si lavava nei primi anni 60: c'era il mastello non c'era il bagno con vasca e doccia. Io sono nato nel 1956 e in casa mia il frigorifero è arrivato nel 1968, la tv nel '64».
Un'infanzia povera ma bella.
«La felicità non è legata allo stile di vita, all'estrazione sociale. Quegli anni sono stati i più belli, i più intensi, anche se non si aveva nulla, o forse anche per quello».
Com'erano le domeniche in bicicletta lungo il canale Villoresi?
«Una meraviglia: mia mamma ci faceva fare il bagno nelle roggette solo con le mutandine, poi ci lavava con il sapone di marsiglia e ci metteva i vestiti puliti. Il contatto con la natura, la cosa che mi manca di più a Milano, dove vivo da più di vent'anni».
Altre domeniche andavate in gita al Sacro Monte in pullman, ci viene ancora?
«Sono legato al Sacro Monte ma l'ultima volta ci sono stato sei anni fa, con la famiglia e il mio bambino di pochi mesi».
La inviteremo ufficialmente. Che cosa è rimasto a Villa Cortese?
«La casa esiste ma nessuno dei miei abita lì, i vecchi cortili di cui racconto sono stati distrutti o ristrutturati. Sono rimasti i bar con nuovi gestori e avventori, la chiesa è sempre quella, l'oratorio pure, il prete no. Mia mamma vive ancora a Villa Cortese e io ci torno una volta al mese, vedo anche un paio di amici di scuola. Mio papà è mancato nel 2003. Mia sorella vive a Tradate».
Il suo primo lavoro: operaio metalmeccanico. Cosa ricorda?
«Ho fatto il saldatore in piccole aziende metalmeccaniche vicino alla Franco Tosi, dove volevano lavorare tutti: ti assicurava lo stipendio fisso a vita. Chissà, se fossi riuscito a farmi assumere lì non sarei stato più precario e forse la voglia di scappare via sarebbe stata meno forte. Ma non mi si sarebbero aperte le porte del teatro e del successo».
Il suo secondo lavoro: puliva i bagni all'ospedale di Legnano, dopo è diventato infermiere. Suo figlio non dovrà fare un lavoro umile, ma quello che lei ha imparato lì come glielo insegnerà?
«Questo è difficilissimo, spero che riusciremo trasmettergli il rispetto del lavoro degli altri e una determinazione propria».
In colonia a Pietra Ligure a 4 anni, e con la paura al ritorno di essere stato dimenticato: quanto è stato segnato?
«Tanto. Sono andato in colonia a 4 anni perché dovevo respirare aria di mare e ci sono stato per due mesi: lo racconto con ironia ma per me fu tragico. Ero solo a 160 Km da casa ma nel 1960 erano moltissimi, i miei venivano a trovarmi in pullman ogni due settimane e io li aspettavo col magone».
È cresciuto in una famiglia cattolica con la Madonna come figura di riferimento e scrive che l'8 dicembre fa il presepe: va anche a messa, prega, crede?
«Negli ultimi 12 anni, da quando ho incontrato mia moglie, la mia fede si è riaccesa e vado a messa la domenica. E l'8 dicembre fare il presepe con mio figlio è bellissimo».
Frequentava un circolone da ragazzino.
«Il circolone di Villa Cortese, che per me era caput mundi in quel periodo. Allora tutti i circoli si chiamavano circoloni, il nostro era dedicato ai combattenti e reduci».
Il suo primo libro è stato «La capanna dello zio Tom».
«Ce l'ho lì per mio figlio. Ho conservato tutti i libri della mia infanzia, anche Cuore che mi hanno regalato alle medie».
Cita grandi personaggi letterari: Emma Bovary, Gregor Samsa, don Abbondio e Ivan Karamazov. Qual è il suo preferito?
«Il primo è Gregor Samsa, poi Don Abbondio, Ivan, infine Emmna Bovary».
A 16 anni era un comunista, viveva in una comune a Canegrate.
«Erano anni molto intensi, in tutta Europa c'era questo fermento, questa necessità di cambiare il mondo e rivoluzionarlo. C'ero dentro anche io con entusiasmo, poi via via che le cose accadevano mi sono reso conto che non era il metodo giusto per operare dei cambiamenti e che certe cose non andavamo necessariamente cambiate».
E ora che rapporto ha con la politica?
«Sono sempre stato appassionato di politica ma credo che il sistema dei partiti sia finito. Ho apprezzato fino a qualche mese fa Grillo, che ha bene descritto il marciume del sistema facendoci desiderare qualcos'altro, che però non può essere lui. Trovo più interessante Renzi: se si fosse presentato fuori dal Pd secondo me avrebbe raccolto maggiori consensi. Ma oltre a loro non c'è nessuno».
Recitava nella compagnia filodrammatica dell'oratorio, faceva già ridere?
«Eravamo tre ragazzi, uno altissimo, uno molto grasso e uno molto piccolo (io ovviamente): facevamo tre extraterrestri e già all'ingresso in scena facevamo ridere. Comunque negli oratori chiunque si presenti in scena fa ridere, anche se recita re Lear, perché viene riconosciuto».
E Aldo e Giovanni nel libro?
«C'è una descrizione di quando li vedo per la prima volta in scena e spero di lavorare con loro, non scrivo i loro nomi ma si capisce che sono loro».
Milano appare come una Eldorado ma è proprio così?
«Milano è stata la mia Eldorado per quello che rappresentava, un approdo desiderabile. Poi ho patito le sue freddezze, le spigolosità, la fatica di vedere gli amici, il fatto che nulla avvenga con spontaneità ma tutto vada programmato. Resta la città delle grandi opportunità».
Sua madre sperava che da grande lei lavorasse in banca. Lei per suo figlio?
«Spero di metterlo nelle condizioni di fare quello che desidera senza pressioni. I miei sognavano anche che io facessi l'avvocato perché qualche prof delle medie gli ha detto che avevo una bella parlantina».
È vero che il trio andrà in pensione quando lei compirà 60 anni?
«Per passare dal comico al ridicolo ci vuole un attimo: noi ci siamo ripromessi di non farlo e di ritirarci con dignità quando scopriremo di aver già dato tutto il meglio».
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