DOPO LA SENTENZA
Binda, “amico” in carcere
Il presunto assassino di Lidia Macchi ha letto le motivazioni della condanna all’ergastolo. Il legale: «È sempre sereno e aiuta tutti nelle istanze»

I suoi difensori gli hanno portato le motivazioni della sentenza che lo scorso mese di aprile l’ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Lidia Macchi del 5 gennaio 1987.
Quasi duecento pagine che Stefano Binda ha letto nel carcere di Busto Arsizio, dov’è recluso, e che naturalmente non ha condiviso, dato che dall’estate del 2016 ripete di essere del tutto estraneo alla morte dell’amica Lidia.
«Era ed è rimasto sereno - spiega l’avvocato Sergio Martelli, che davanti alla Corte d’Assise di Varese presieduta da Orazio Muscato ha difeso Binda insieme alla collega Patrizia Esposito -. Le motivazioni sono quelle che potevamo immaginare, anche se ho trovato discutibile il riferimento ai presunti depistaggi che secondo la Corte ci sarebbero stati e che avrebbero avuto come obiettivo quello di influenzare lo svolgimento del processo. Se si parla di depistaggi si dovrebbe chiarire a che cosa ci si riferisce caso per caso, altrimenti l’effetto è quello di “oscurare” ulteriormente l’immagine di Binda tirando il sasso e nascondendo la mano. Ora inizieremo a lavorare al ricorso in appello, che sarà presentato il prossimo autunno, e ripeteremo tutto quello che secondo noi non torna in una ricostruzione dell’omicidio che ha molti punti deboli, non riconosciuti dalla Corte d’Assise di Varese».
LO SPORTELLO AMICO
Binda intanto non si è fatto abbattere dalla condanna all’ergastolo. E nel carcere di Busto Arsizio - riferisce ancora il suo legale - lavora con grande impegno allo “Sportello amico”. «Utilizza la sua cultura e le sue competenze soprattutto per dare una mano agli altri detenuti nella compilazione di istanze e altri documenti. In carcere non è mai rimasto inattivo, si è sempre messo al servizio degli altri ed è quello che continuerà a fare, in attesa di tornare davanti ai giudici di appello per vedere riconosciuta la sua innocenza».
I PRESUNTI DEPISTAGGI
Riguardo ai depistaggi, va ricordato che il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi, rappresentante della pubblica accusa nel processo, aveva indicato una decina di tentativi di “inquinamento probatorio” nella sua requisitoria. E nelle motivazioni della sentenza depositate lo scorso 23 luglio ha avuto particolare evidenza uno di questi, nelle pagine in cui la Corte d’Assise fa esplicito riferimento a un’indagine pendente in Procura, per il momento contro ignoti, per il delitto di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, ai sensi dell’articolo 615 ter del codice penale.
LA LETTERA
«L’inusuale tentativo di depistaggio verificatosi nel corso del processo» a cui si riferisce il giudice estensore, Cristina Marzagalli, riguarda una lettera pubblicata sulla Prealpina e a firma di Federico Aletti in cui quest’ultimo, alla luce delle deposizioni di Donato Telesca e Gianluca Bacchi Mellini, gli unici a offrire un alibi all’imputato rispetto alla vacanza di GS a Pragelato dei primi di gennaio del 1987, criticava ferocemente le indagini, compresa l’attribuzione a Stefano Binda della lettera anonima “In morte di un’amica” perché «effettuata sulla sola base delle dichiarazioni di una testimone “svegliatasi” dopo 30 anni (è questo il caso di Patrizia Bianchi, colei che riconobbe la grafia dell’imputato)», e preannunciava l’assoluzione di Binda quale «probabile epilogo del processo», con «inutile dispendio di denaro pubblico».
Le indagini degli inquirenti hanno però accertato che la lettera ricevuta dalla Prealpina non era «il frutto del libero pensiero di un qualsiasi lettore» ma è stata inviata al quotidiano «da ignoti soggetti che hanno forzato l’account di Federico Aletti, cittadino di Varese, contro la sua volontà e superando il muro della password, per utilizzarne la postazione telematica al fine dell’invio al giornale».
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