L’ESPOSIZIONE
Teatro Noh: la maschera racconta come si è e come si appare
A Sesto Calende alcuni scatti che mostrano cos’è questa forma d’arte, espressione dell’epoca dei samurai e dei sogni irrealizzati

Il teatro Noh giapponese esce dai suoi spazi e, dopo essere transitato con le sue maschere in un’ottantina di fotografie nel libro Messaggero da un altro mondo di Naoya Yamaguchi, che il fotografo giapponese ha curato con Christian Diliberti, si presenta nel mese di agosto nell’esposizione di alcuni di questi scatti in mostra alla libreria Ubik di Sesto Calende, che del volume ha recentemente proposto una presentazione al pubblico. Un lavoro, quello raccolto nel libro, che è durato una decina d’anni e che per la prima volta ha di fatto trasportato il teatro Noh al di fuori dagli spazi dove si svolge per tradizione e cultura. Quelli, appunto, di un teatro. «Da otto anni collaboro con lo studio di Naoya Yamaguchi – spiega Christian Diliberti, designer gallaratese che da quattordici anni vive a Tokyo -, e inizialmente non c’era l’idea di fare un libro, ma solo di diffondere queste foto per mostre ed eventi. L’idea di Yamaguchi era infatti da tempo quella di fare un’opera di diffusione della cultura giapponese all’estero, rivedendo anche in maniera moderna il Giappone classico». Il libro è stato prodotto in una tiratura limitata di circa 500 copie e le immagini sono veri e propri racconti. «Il teatro Noh, a differenza del teatro kabuki che può essere visto di mero intrattenimento, è considerato espressione dell’epoca dei samurai e dei sogni e dei desideri della vita mai realizzata- sottolinea Diliberti - . Si tratta di un teatro molto colto e con tante regole, parlato in un linguaggio che spesso non è comprensibile neppure ai Giapponesi stessi. Nasce circa settecento anni fa e conta centosessanta personaggi con alcune maschere che si ripetono, ma che sono sempre gli stessi. Nelle varie epoche ci sono stati imperatori che hanno tentato di creare nuove storie rendendosi protagonisti, ma mai questi personaggi e queste narrazioni sono durate più del loro dominio». Demoni e principesse, divinità e animali, con diverse maschere tra cui la più iconica e principale è quella totalmente bianca, che è quella che indossa nelle immagini del libro l’attore Chitoshi Matsuki, che si presta a varie interpretazioni dandosi espressioni diverse con le luci che la colpiscono. «Abbiamo cercato le storie che potessero essere più comprensibili in Occidente – aggiunge Diliberti – e cercato i luoghi più verosimili, montagne, alberi. C’è un aneddoto, a questo proposito, legato a uno dei luoghi dove abbiamo scattato alcune immagini: per raccontare la storia di un monaco che deve attraversare un ponte ai cui bordi c’è un leone, abbiamo scelto un’ambientazione su uno strapiombo. L’attore, con la maschera, non aveva l’esatta visuale di cosa era sotto di lui e quando se l’è tolta e si è visto in quella situazione si è veramente spaventato ed è scoppiato a piangere. Ma la cosa più singolare è che tutto il gruppo che l’accompagnava è scoppiato a piangere con lui». Un teatro, si diceva, di fortissime e ferree tradizioni e regole culturali: basti pensare che per la vestizione del personaggio occorrono in media ogni volta circa due ore e mezza e servono almeno tre persone che se ne occupano. «E ogni disegno sui kimoni, sugli obi, cioè le fasce che li chiudono, sui ventagli, hanno un preciso significato: non sono fantasie a caso, ma rappresentano le stagioni e i demoni che spesso stanno dietro alla narrazione o ai personaggi». Perché un’altra caratteristica di questo teatro è proprio quella di avere sempre un “davanti” e un “dietro”, di raccontare come un personaggio appare e come è la sua vita reale. E così un principessa può invece in effetti nascondere un demone che si nutre di esseri umani e un vecchio pescatore può essere ciò che non è diventato un guerriero ucciso in giovanissima età.
© Riproduzione Riservata