L’INCHIESTA
Coprirono il killer: sette a processo
Omicidio a Misano, gli imputati, tutti albanesi, aiutarono il latitante a fuggire in Svizzera

Paulin Nikaj, l’albanese che ammazzò un connazionale davanti a un supermercato di Misano Adriatico, riuscì a scappare in Svizzera grazie al fitto reticolo di parenti e amici che aveva a Varese.
Certo, la latitanza non durò a lungo, ma il trentacinquenne fu davvero a un passo dall’impunità, garantita dalla fuga negli Stati Uniti.
L’omicidio del ventiquattrenne Nimet Ziberi risale a marzo del 2014, Nikaj sta scontando in carcere. Ma ora la giustizia presenta il conto ai suoi presunti fiancheggiatori, sette albanesi che a ottobre dovrebbero comparire davanti al gup Giuseppe Fertitta, ma il condizionale al momento è d’obbligo.
Perché ad almeno uno degli imputati è arrivata la notifica della fissazione dell’udienza priva di una pagina, quella che indica i reati. Con ogni probabilità l’atto si rivelerà nullo, quindi il fascicolo potrebbe tornare in procura per poi ripercorrere lo stesso iter.
Senza dimenticare pezzi lungo il cammino. Anche perché per i complici dell’assassino - Rejmond Markaj, Eduard Markaj, Domenika Markaj, Fran Cungu, Mark Cungu, Dede Prelaj e Gentian Lohja - gli inquirenti riminesi avevano chiesto addirittura la custodia cautelare in carcere. E ora invece si corre il rischio della prescrizione.
Per i primi sei l’accusa è di favoreggiamento personale perché in concorso tra loro, dopo il delitto romagnolo, avrebbero aiutato Nikaj a «sottrarsi alle ricerche dell’autorità giudiziaria e dei carabinieri e a eluderne le investigazioni».
I Markaj avrebbero ospitato l’assassino nella loro abitazione varesina, poi lo avrebbero trasferito in un luogo che era nella disponibilità di Fran Cungu.
I sei avrebbero consentito l’espatrio di Nikaj in Svizzera, a bordo di un’auto e gli avrebbero assicurato denaro, vitto, alloggio e spostamenti attraverso i compari elvetici, ossia Luan Makaj e il kosovaro Adnan Zejnullahu.
Lohja risponde invece solo del confezionamento - in concorso con gli altri - di una carta di identità italiana falsa valida per l’espatrio, rilasciata dal comune di Concorezzo, con foto di Nikaj e le generalità di un ignaro cittadino della Brianza. Ma Lohja si dice sconsolato ed esasperato.
«Non ce la faccio più, qualsiasi cosa accada in Italia vengo accusato io. Di questa storia non so nulla, mi avevano fatto una perquisizione a casa che aveva dato esito negativo. Ho trascorso due anni e mezzo in carcere da innocente, per un omicidio del 2007 che non avevo commesso e in cui non c’entravo nulla, tanto è vero che venni assolto. Perché coinvolgermi ancora? Lavoro onestamente, ho una famiglia, possibile che le risorse le debba investire tutte in avvocati?», si sfoga.
Ziberi venne ucciso con sette colpi di pistola calibro 7.65, sotto gli occhi della moglie incinta e dei due figli piccoli.
Si trattò di un regolamento di conti, di una faida familiare in ossequio al codice del Kanun, bibbia deontologica dell’albanese d’onore.
La Corte d’Assise, in primo grado, condannò il killer a trent’anni di reclusione e a una previsionale di un milione di euro.
I giudici esclusero le aggravanti della premeditazione e dei motivi abbietti e futili.
Secondo la difesa l’uomo aprì il fuoco sentendosi minacciato dalla vittima: temeva le ritorsioni di un litigio finito nel sangue con il fratello di Ziberi. Il pubblico ministero di Rimini sostenne invece la premeditazione scaturita da un’accesa discussione che i due ebbero in un bar nel riminese pochi mesi prima.
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