VERSO LE ELEZIONI
Fassa ne ha per tutti
L’ex sindaco di Varese: la politica? Confusa

«Il bipolarismo? Più che verso poli opposti mi pare ci sia una corsa verso il centro, più affollato della metro di Milano all’ora di punta. Le contraddizioni dell’ammucchiata nel centrodestra e nel centrosinistra? Più che d’un disturbo bipolare, direi che si tratta di pura fisiologia del sistema elettorale italiano. La Lega di Matteo Salvini? Preferivo quella di Umberto Bossi: lui sapeva tirare di fioretto e di sciabola. Salvini ha una sola arma: l’accetta. Il che gli conferisce l’aura del cavernicolo, che però incontra non poco consenso, visto che è riuscito a portare la Lega dal disastroso 4% in cui l’aveva raccolta al 10-15% stimato oggi».
Bentornato, seppure per pochi giorni (giusto ieri s’è reimbarcato per Tunisi dove vive da sette anni), professor Raimondo Fassa.
L’ex sindaco di Varese - il prossimo gennaio cadranno i trent’anni della sua nomina - ha trascorso infatti qualche settimana tra Gallarate e la (ex) Città Giardino, intervallando la sosta con una vacanza in Austria. Un’occasione per ritemprarsi dalle sudate carte, suo terreno elettivo tanto più oggi in qualità di Lettore universitario con incarichi extra accademici all’Ambasciata d’Italia in Tunisia. Cioè docente d’Italiano e materie storico-giuridiche. Un’occasione però anche per incontrare vecchi amici, per pranzare col suo attuale successore, Davide Galimberti e per dare un’occhiata alla città, amministrata fino al 1997 dalla camera da letto - da decenni ufficio del sindaco - che fu di Francesco III d’Este.
Prima domanda: che ha detto a Galimberti?
«Nulla di sconvolgente. Abbiamo conversato da amici. Gli argomenti? Politica, ovviamente ma anche altro, incluso lo sviluppo di Varese».
A proposito, che città ha trovato?
«Tanti cantieri, anche di notevole entità. Mi auguro che approdino tutti a conclusione senza problemi. Perché più un cantiere è imponente e più le sorprese amare sono dietro l’impalcatura. Però i cantieri sono anche indice d’ammodernamento. E infatti ho trovato una città avviata a un cambiamento inevitabile verso la propria sprovincializzazione».
Eppure il refrain critico verso il Palazzo ha per tema le grandi opere e le buche quotidiane, non più piccole...
«Pensi che quando ero sindaco, volli impostare il lavoro sull’attenzione alle piccole cose. E sa che cosa mi fu rinfacciato da più parti? Che non sapevo pensare in grande. I cittadini non sono mai contenti e le finanze di un Comune non solo non sono infinite ma impongono spesso scelte impopolari. Provare per credere».
Da Varese e Gallarate alla Medina di Tunisi dove oggi vive. Come si trova?
«Benissimo. Ho imparato un po’ di Tunisino, leggo l’Arabo e riesco a rapportarmi senza alcun problema con la gente del posto. Anzi, devo dire che in quanto italiano sono privilegiato, perché i tunisini grande stima del nostro popolo. Del resto non siamo poi così lontani neppure geograficamente: da Milano a Tunisi la distanza è prossima a quella tra Milano e Catania».
Senza considerare gli sbarchi di oggi e gli anatemi salviniani, l’Italia e l’Africa accostate così avrebbero dato argomenti di presa mediatica anche al Senatùr.
«Carl Schmitt, sdoganato da Gianfranco Miglio nel ginepraio di critiche di filonazismo in cui s’era infilato, aveva dato una perfetta definizione della politica, individuandola come contrapposizione tra amico e nemico. Bossi è stato geniale al limite dell’imprenditorialità a trasformare quel concetto in teorema: ha organizzato un movimento che ancora oggi, forse l’unico col Pd, è strutturato in modo solido. Inventarsi un nemico è l’arma che permette d’intercettare i voti di pancia, che poi sono quelli che spesso fanno la differenza. Così oggi il Pd accusa pretestuosamente di fascismo Giorgia Meloni dimenticando che già Gianfranco Fini, a Fiuggi, aveva rotto col Movimento sociale e con certi revanscismi. E Salvini se la prende con gli irregolari che commettono crimini, omettendo che i criminali italiani non sono meno efferati né meno numerosi. Ognuno deve avere un nemico e se non ce l’ha, lo deve creare apposta».
Così non si perde di vista il programma?
«Certo che sì. E infatti i politici si guardano bene dall’affrontare in modo strutturato il più grave problema sociale di questi ultimi anni: la proletarizzazione della classe media borghese. Ha mai sentito nominare la parola povero? No, si usano termini quali soggetti fragili, categorie esposte... È l’aggiramento semantico della questione. E io dico: se si vuole prendere il consenso, invece d’ammucchiarsi al centro, si mettano al centro i poveri di oggi e quelli che lo saranno già domani viste le drammatiche contingenze internazionali. Il problema è che quando si parla di quest’argomento tutti i programmi si assomigliano. La differenza non è più ideologica. È come se ci si volesse accaparrare la fiducia dell’elettore dicendogli: i programmi sono uguali ma io lo realizzerò meglio del mio avversario. Mi pare che l’attuale classe politica sia poco consapevole del proprio ruolo: brava a individuare la patologia ma incapace poi di trovare una terapia. E i Cinque Stelle l’hanno dimostrato, come pure avevano fatto a loro tempo la Lega, Italia dei Valori. E come potrebbe accadere a Giorgia Meloni».
E come si affronta il tema della povertà?
«In modo radicale e - viste le risorse - anche impopolare. Viviamo le conseguenze di un mondo in cui si era diventati all’improvviso imprenditori di se stessi. E gli imprenditori veri oggi ti dicono: non ti assumo ma se vuoi collaborare con me, dotati di una partita Iva. Poi va a finire che il termine competition - quello usato da Francesco Rutelli in contesa con Giuliano Amato per la leadership del centrosinistra - senza regole scade in competiscion all’italiana. E a rimetterci è il lavoratore, autonomo o dipendente che sia».
Che idea s’è fatto del governo Draghi?
«Credo che Draghi, come pure era accaduto per Mario Monti, appartenga all’élite dei tecnici d’assoluto valore e di specchiata onestà intellettuale. Ma penso anche che la politica non si faccia coi tecnici. Non esistono governi tecnici, perché alla fine sono tutti politici. E le loro decisioni, seppure gabellate come tecniche, sono politiche nella forma e nella sostanza. Ciò significa che alla lunga il tecnico si allontana dal popolo e dai suoi rappresentanti prim’ancora che dai partiti. Se Draghi dovesse continuare - ma non lo credo - ritengo che dovrebbe tenere in conto che il parere di una colf vale tanto quanto quello di un professore e che semmai sta al professore convincere la colf con buoni argomenti».
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