CASO IRRISOLTO
Delitto Macchi: l’amarezza della mamma e la speranza di una nuova inchiesta
La madre dopo l’indennizzo a Binda: «Ho diritto anch’io di denunciare lo Stato». L’avvocato: «Sempre possibile riattivare le indagini»

«Sì, ho saputo dell’indennizzo a Stefano Binda. Che cosa vuole che le dica? Ormai sono un’anziana signora, vivo da sola… Così, a pelle, mi verrebbe da dire che a questo punto ho tutto il diritto anch’io di denunciare lo Stato come hanno fatto i suoi avvocati. Non per l’ingiusta detenzione, ma perché nel mio caso è stato un giudice che con noncuranza ha mandato distrutti reperti. Reperti in teoria in custodia dello Stato e che sarebbero stati indubbiamente utili a risolvere il caso».
POCHE PAROLE
Non ha voglia di parlare con la stampa, ed è comprensibile, Paola Bettoni, la mamma di Lidia, che da più di 35 anni cerca disperatamente la verità sulla morte di «una figlia meravigliosa», come sono «meravigliosi gli altri figli, Stefania, insegnante, e Alberto, medico». Tuttavia, intercettata al telefono, mentre sta effettuando un versamento a favore della fondazione in Uganda che ha istituito un centro culturale che porta il nome della ventenne studentessa di giurisprudenza di Casbeno uccisa nella notte tra il 5 e 6 gennaio del 1987 nei boschi del Sass Pinì a Cittiglio, si lascia andare a quella che in apparenza potrebbe sembrare una provocazione.
L’AMAREZZA
Una provocazione dettata dall’amarezza di essersi ritrovata, a quasi 10 anni di distanza dall’avocazione della Procura Generale, con un pugno di mosche. Quasi la stessa sensazione di impotenza che aveva portato lei e i suoi figli, di fronte all’inerzia degli inquirenti varesini, a bussare alla porta dell’allora avvocato generale presso la Procura di Milano Laura Bertolè Viale per vedere se si poteva fare qualcosa di più. Comunque la si veda e la si pensi, gli estremi per un’azione risarcitoria sembrerebbero tuttavia tutt’altro che campati in aria.
LA DISTRUZIONE DEI VETRINI
In fondo, nei primi anni Duemila, inopinatamente, un gip del Tribunale di Varese prestò il consenso alla distruzione di tutti gli indumenti della vittima e, soprattutto, dei vetrini con il liquido seminale che, alla luce delle nuove tecniche scientifiche di polizia, avrebbero molto probabilmente consentito di individuare l’assassino di Lidia. A ben guardare, non è colpa dello Stato se quei vetrini sono stati distrutti in barba all’obbligo di conservare le prove? «Non ne ho ancora parlato con la signora Paola e i suoi figli. Indubbiamente, è una questione da approfondire e valutare con attenzione», commenta l’avvocato Daniele Pizzi, storico legale della famiglia Macchi. Anche lui si limita a prendere atto del maxi-risarcimento concesso a Binda per i 1.286 giorni di indebita carcerazione preventiva: «Noi non eravamo parte in quel procedimento, per cui non possiamo fare altro che rispettare la decisione presa. Per quel che ci riguarda, il procedimento avocato dalla Procura Generale di Milano è terminato nel momento in cui la Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione nei confronti di Binda. C’è la profonda amarezza perché nonostante tutti gli sforzi investigativi profusi nelle due piste perseguite, prima Giuseppe Piccolomo, poi Binda, non si è giunti a risolvere il caso. Come mi ha detto spesso proprio la mamma di Lidia, speriamo che un giorno o l’altro l’assassino trovi il coraggio, si faccia avanti e ammetta quello che fatto, se è ancora vivo».
REATO IMPRESCRITTIBILE
Al momento, la riapertura del “cold case” non è all’ordine del giorno. Ma, come ribadisce il legale della famiglia Macchi, «siamo di fronte a un reato imprescrittibile. Per cui è sempre possibile riattivare le indagini». Ecco, parlando proprio delle indagini, dopo la chiusura della vicenda giudiziaria di Binda, il fascicolo contro ignoti relativo all’omicidio del Sass Pinì è a tutti gli effetti tornato sotto la competenza della Procura di Varese. «Abbiamo letto che dovrà arrivare a Varese un nuovo procuratore capo al posto della dottoressa Daniela Borgonovo. Chiunque si insedierà, vedremo quali saranno i suoi intendimenti riguardo all’opzione di nuove indagini». Da dove ripartire? «Penso che si potrebbe ripartire dai peli e i capelli rinvenuti nella zona pubica di Lidia durante l’accertamento peritale eseguito dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo. Formazioni pilifere che non appartengono né a Lidia, né ai suoi familiari, né al personale dell’obitorio e delle pompe funebri che entrarono in contatto con la salma», precisa il legale. Rifacendosi alle motivazioni della Corte d’Assise d’Appello: «Con l’aiuto della scienza le spoglie di Lidia hanno parlato. I resti nella zona pubica hanno conservato preziose tracce», avevano scritto i giudici. La ricerca della verità potrebbe ripartire da qui.
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