IL RICORDO
Varese: «Mi chiamo Maniglio e vi racconto una storia»
I post su Facebook e l’amore per le canzoni: il libro postumo di Botti

Lo chiamava «il Tempio della Scienza» prendendo in prestito la definizione da Enzino Tresca, suo amico e collega morto troppo presto per chi - come Maniglio Botti - viveva il tempo come una benedizione.
Quel Tempio era la Prealpina, per quarant’anni sede della sua scrivania, delle sue cartellette verdi e azzurre con le foto da squadrare, coi «pezzi giacenti» dei collaboratori ordinati cronologicamente per essere pubblicati, notizie fresche permettendo.
Era abitudinario, Maniglio: sui menabò del giorno, quelli delle pagine allora battezzate Provincia che andavano da Malnate alla Sponda Magra del Verbano, segnava data e santo del giorno. Un altro segno di devozione al tempo. A proposito, ieri Maniglio avrebbe compiuto 73 anni ma dal 14 maggio di due anni fa la conta del tempo serve solo a chi resta. Proprio come l’idea benedetta di dare forma di libro alle sue finissime incursioni quotidiane su Facebook, laddove - lui, all’inizio ritroso alla disumanizzazione dello scrivere in favore del progresso digitale - sapeva restituire umanità e sapienza a chi aveva la fortuna algoritmica di leggere i suoi post. Questione di classe narrativa.
Di Maniglio Botti da Gualdo Tadino per famiglia, riminese per amore e masnaghese del Cantoreggio per formazione è infatti la firma sul volume Mi chiamo Maniglio e vi racconto una storia - Pensieri e ricordi di un giornalista in pensione che Fiorenzo Croci, suo fratello elettivo, inseparabile compagno d’incursioni adolescenziali tra letteratura e canzoni «che non sono canzonette», collega di lezioni sulla scrittura a Varesecorsi nonché responsabile del Cavedio, ha fortissimamente voluto pubblicare insieme con Lucia e Carlo, che di Maniglio sono i figli e di un altro acuto interprete della notizia qual è Michele Mancino.
Il libro, i cui proventi sono destinati - e non sarebbe potuto essere altrimenti per un uomo di grande generosità e di comprovata onestà non solo intellettuale - alla Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica, sarà presentato sabato, alle 18, nella sede di Varesecorsi, in piazza Motta 4. Le riflessioni contenute nel libro sono inversamente proporzionali al corpo del volume (540 pagine) che contiene anche le annotazioni di tutte le canzoni citate da Botti nei suoi post e rilanciate oggi in una playlist di Spotify (Maniscio’s Memories). Un invito all’ascolto e al riascolto d’un tempo ormeggiato tra il 2015 e il 2020 (con l’ultimo atto d’amore a Gianni Sanjust e alla sua Io che non piangevo mai) ma che ondeggia tra gli Anni Sessanta e gli Ottanta, laddove Maniglio, col pretesto di raccontare e raccontarsi, ha saputo trasformare le note melanconiche del tempo che fugge irreparabile in scorci di otium assolati come la battigia della sua Rimini, città dalla quale si fece adottare per amore di Laura.
Ci sarà anche lei, sabato a questa festa, coi figli Carlo e Lucia, col genero Stefano, coi nipoti Giovanni e Caterina ma anche con Fiorenzo, con Adalberto Zappalà (al sitar), con Davide Valier (Fondazione per la ricerca sulla fibrosi cistica), con gli amici del Cantoreggio e coi colleghi giornalisti, a cominciare da Mancino per finire con Gianni Spartà, suo vicino di scrivania ai tempi d’oro di Mario Lodi, Pierfausto Vedani e Gaspare Morgione e Mino Durand. Non potrà invece esserci Max Lodi, che di Maniglio fu compagno di classe al Cairoli, collega alla Prealpina e al web di Radio Missione Francescana. Proprio sabato, però, sul sito di Rmf, che Lodi dirige, sarà pubblicato un ricordo dell’amico per celebrarne il libro. Un altro segno della memoria che non compensa il vuoto ma che - come avrebbe chiosato Maniglio - il tempo non può cancellare.
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