LA FONDAZIONE
Prestiti Molina, ecco i perché delle assoluzioni
Le accuse cadute contro Campiotti e Airoldi e il ricorso in appello della Procura

Quello dei prestiti della Fondazione Molina è stato un caso politico, mediatico e giudiziario che a Varese è stato al centro dell’attenzione più o meno per sei anni. Da quando esplose, la sera stessa della vittoria alle elezioni amministrative del sindaco Davide Galimberti, nel 2016, alla sentenza del processo a Christian Campiotti, ex presidente della casa di riposo (difeso dagli avvocati Pietro Romano e Sara De Micco), e a Lorenzo Airoldi, editore di Rete 55 Evolution (difeso dall’avvocato Stefano Bruno), processo che lo scorso 14 luglio si è concluso con l’assoluzione di entrambi. Perché? A spiegarlo sono le motivazioni della sentenza del Tribunale presieduto da Andrea Crema, messe su nero su bianco, in 40 pagine, dal giudice estensore Niccolò Bernardi. In attesa che la vicenda prosegua in appello a Milano, dato che contro questa sentenza la Procura di Varese ha già fatto ricorso.
L’ACCUSA DI PECULATO NON STA IN PIEDI
In estrema sintesi, le motivazioni ci dicono che l’originaria accusa di peculato mossa dalla pubblica accusa ai due imputati non sta in piedi, «per l’erroneità della tesi del carattere di “ente sostanzialmente pubblicistico” di Fondazione Molina». Con la conseguenza «dell’assenza del ruolo di pubblico ufficiale e/o incaricato di pubblico servizio del Campiotti» e «dell’assenza del carattere pubblicistico del denaro versato sia dai privati utenti dell’ente sia da Regione Lombardia nella remunerazione delle prestazioni di assistenza medica fornite ai degenti». Carattere sostanzialmente pubblicistico che è invece ribadito dalla Procura nel suo ricorso in appello.
Il fatto che non ci fosse in gioco denaro pubblico, perché la Fondazione Molina non è un ente pubblico, non esclude comunque l’ipotesi che qualcuno abbia messo la mani su denaro privato, commettendo il reato di appropriazione indebita per fini personali. Ipotesi che i giudici esaminano nelle motivazioni arrivando a conclusioni diverse per i due prestiti.
LE CONCLUSIONI DIVERSE
Per quanto riguarda quello del Molina alla società Mata Spa - 500mila euro nel gennaio 2016: accusato il solo Campiotti - secondo i giudici il fatto non costituisce reato perché c’è quanto meno «un dubbio sul fatto che il Campiotti avesse sottoscritto il prestito obbligazionario di Mata Spa sulla base di interessi esclusivamente personali e non in linea con l’interesse sociale». E questo perché il presidente agì su suggerimento dei consulenti finanziari della Fondazione, avendo in quel momento i poteri di direttore generale e mosso dalla considerazione che il prestito «risultava coperto da adeguate garanzie e, in specie, la prestazione di ipoteca di primo grado sul Castello di Belgioioso».
Mentre per quanto riguarda i soldi dati dal Molina a Rete 55 Evolution Spa, con la sottoscrizione nel novembre 2015 di un altro prestito obbligazionario da 450mila euro, il Tribunale osserva che si potrebbe ipotizzare un abuso da parte di Campiotti della carica di presidente «al fine di realizzare investimenti che risultavano preclusi dalle peculiarità del quadro statutario». Ovvero con «profili di anomalia e rischiosità».
IL DIFETTO DI PROCEDIBILITA’
Ma in questo caso a far cadere l’accusa è stato «un difetto di procedibilità del reato», ovvero il fatto che non ci sia mai stata una querela per appropriazione indebita da parte del Molina. E non solo, perché nel novembre 2021 la Fondazione ha anche revocato la sua costituzione di parte civile nel processo per il prestito a Rete 55, che avrebbe potuto sostituire la querela mancante. Impossibile dunque procedere in assenza di una qualsiasi richiesta risarcitoria da parte dell’ente, che evidentemente a un certo punto ha stabilito di non essere stato danneggiato da quel prestito. Del resto regolarmente onorato e infine integralmente restituito dal Rete 55 Evolution Spa.
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