BUSTE PAGA
Varese nella top ten degli stipendi
Decima in Italia con 24.260 euro lordi all’anno nel settore privato. Prima la provincia di Milano. Vibo Valentia meno della metà. L’analisi sui motivi del gap

La provincia di Varese è decima nella graduatoria nazionale delle buste paga. La retribuzione media lorda pagata in un anno nel settore privato è di 24.260 euro, con 2,392 euro in più rispetto alla media italiana. La classifica è stata stilata dalla Cgia di Mestre sulla base dei dati Inps relativi appunto al settore privato.
Al primo posto c’è ovviamente la provincia di Milano con 31.202 euro di busta paga lorda annuale, all’ultimo Vibo Valentia con soli 11.823 euro. Il divario è gigantesco. Ecco la top ten: Milano (31.202); Parma (25.912); Bologna (25.797); Modena (25.722); Reggio Emilia (25.566); Lecco (25.190); Trieste (24.747); Torino (24.506); Bergamo (24.368) e quindi Varese che è decima (24.260). La vicina Como è 26esima in classifica. Va tenuto conto che sono retribuzioni medie: nella stessa provincia c’è chi percepisce molto e chi assai meno. Anche in Lombardia infatti ci sono buste paga molto basse.
Ecco le analisi della Cgia che accompagnano i dati.
IL GAP TRA NORD E SUD
«Gli squilibri retributivi presenti tra le diverse aree del nostro Paese, come, ad esempio, tra Nord e Sud, ma anche tra le aree urbane e quelle rurali. Questione che le parti sociali hanno tentato di risolvere, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 del secolo scorso, attraverso l’impiego del contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL). L’applicazione, però, ha prodotto solo in parte gli effetti sperati».
«Le disuguaglianze salariali - aggiunge l’analisi - tra le ripartizioni geografiche sono rimaste perché nel settore privato le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società finanziarie-assicurative-bancarie - che tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media - sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord. Le tipologie di aziende appena richiamate, infatti, dispongono di una quota di personale con qualifiche professionali sul totale molto elevata (manager, dirigenti, quadri, tecnici), con livelli di istruzione alti a cui va corrisposto uno stipendio importante. Infine, non va nemmeno scordato che il lavoro irregolare è diffuso soprattutto nel Mezzogiorno e da sempre questa piaga sociale ed economica provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori (agricoltura, servizi alla persona, commercio, etc.), ubicati nelle aree interessate da questo fenomeno».
DIFFERENZE RIDOTTE
«Se invece di comparare il dato medio tra aree geografiche diverse lo facciamo tra lavoratori dello stesso settore, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura più contenute di quelle presenti in altri paesi europei. Pertanto, possiamo dire che in Italia le disuguaglianze salariali a livello geografico sono importanti, ma, grazie a un preponderante ricorso alla contrattazione centralizzata, abbiamo differenziali più contenuti rispetto agli altri Paesi. Per contro, la scarsa diffusione in Italia della contrattazione decentrata – istituto, ad esempio, molto diffuso in Germania – non consente ai salari reali di rimanere agganciati all’andamento dell’inflazione, al costo delle abitazioni e ai livelli di produttività locale, facendoci scontare anche dei gap retributivi medi con gli altri paesi molto importanti».
SALARIO MINIMO? MEGLIO ALTRI STRUMENTI
«Il problema dei lavoratori poveri non parrebbe riconducibile ai minimi tabellari troppo bassi, ma al fatto che durante l’anno queste persone lavorano un numero di giornate molto contenuto. Pertanto, più che a istituire un minimo salariale per legge andrebbe contrastato l’abuso di alcuni contratti a tempo ridotto» spiega la nota della Cgia. Che aggiunge: «Per innalzare gli stipendi dei lavoratori dipendenti, in particolar modo di quelli con qualifiche professionali minori, bisognerebbe continuare nel taglio dell’Irpef e diffondere maggiormente la contrattazione decentrata. Avendo una delle percentuali relative al numero di lavoratori coperto dalla contrattazione collettiva nazionale tra le più alte a livello europeo (95 per cento del totale dei lavoratori dipendenti), dovremmo “spingere” per diffondere ulteriormente anche la contrattazione di secondo livello, premiando, in particolar modo, la decontribuzione e il raggiungimento di obbiettivi di produttività, anche ricorrendo ad accordi diretti tra gli imprenditori e i propri dipendenti». «Così facendo, daremmo una risposta soprattutto alle maestranze del Nord e in particolar modo delle aree più urbanizzate del Paese che, a seguito del boom dell’inflazione, in questi ultimi due anni hanno subito, molto più degli altri, una spaventosa perdita del potere d’acquisto».
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