IL CASO GIUDIZIARIO
Varese, risarcimento a Binda. «Valutare il suo silenzio»
Le motivazioni della Cassazione che ha detto no alla somma per ingiusta detenzione. Assolto dall’accusa dell’omicidio di Lidia Macchi

L’udienza bis davanti ai giudici della quinta Corte d’Appello di Milano per decidere in ordine alla richiesta presentata dagli avvocati di Stefano Binda di equo indennizzo a seguito di ingiusta detenzione da lui patita non è ancora stata fissata.
Tuttavia, qualcosa si sta muovendo. Soprattutto dopo il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con la quale, nell’ottobre del 2022, i giudici della quinta Corte d’Appello di Milano, accogliendo l’istanza degli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli, avevano giudicato come ingiusta la detenzione al quale è stato sottoposto il cinquantaseienne di Brebbia e ne avevano riconosciuto il diritto all’indennizzo a titolo di riparazione quantificato in 303mila euro.
Una somma ricavata moltiplicando la cifra standard di 235,87 euro per i 1.286 giorni trascorsi in carcere dall’allora indagato e poi imputato per l’omicidio della ventenne studentessa universitaria di Casbeno Lidia Macchi, conosciuta ai tempi del Liceo Cairoli e della comune frequentazione degli ambienti di Comunione e Liberazione.
La quarta sezione della Suprema Corte, giudicando fondato il ricorso presentato dal sostituto procuratore generale di Milano Laura Gay, ha disposto l’annullamento con rinvio alla stessa sezione della Corte d’Appello della metropoli lombarda, fatto naturalmente salvo l’obbligo che a pronunciarsi di nuovo sull’istanza debbano essere tre giudici diversi rispetto a quelli che si sono espressi in prima battuta.
A seguire le motivazioni degli Ermellini, i giudici milanesi hanno sbagliato ad accogliere le richieste risarcitorie perché non hanno risposto in modo adeguato a quello che in casi come questi è considerato il quesito clou: c’erano o meno presupposti fondati affinché il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Varese Anna Giorgetti emettesse l’ordinanza di custodia cautelare che ha poi portato all’arresto del brebbiese all’alba del 15 gennaio 2016 e poi la tenesse in vita?
L’indicazione della Suprema Corte rispetto al nuovo giudizio è quella di rivalutare la condotta di Binda e tutto il materiale probatorio all’epoca del provvedimento cautelare per poter verificare, ad esempio, se il brebbiese non ha dichiarato quello che in realtà avrebbe potuto dichiarare oppure ha reso dichiarazione mendaci.
La difesa sostiene da sempre che Binda «non ha mai tenuto un comportamento gravemente colposo o comunque tale da lasciare supporre agli inquirenti che fosse coinvolto a pieno titolo nell’omicidio di Lidia Macchi e, di conseguenza, dovesse essere sottoposto a custodia cautelare»; e che «non può essere ritenuto gravemente colposa la scelta dell’allora indagato di essersi avvalso della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip Giorgetti».
Di avviso contrario la Procura Generale, secondo cui il gip che ha disposto la misura cautelare, anche a fronte del silenzio di Stefano Binda, avrebbe avuto comunque in mano elementi indiziari importanti a suo carico.
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