IL CASO
Binda, “partita” aperta
Caso Macchi: un bilancio del processo dopo cinque udienze
Diciassette mesi di carcere. Due mesi di processo davanti alla Corte d’Assise. Cinque udienze. Quali delle accuse a Stefano Binda per l’omicidio di Lidia Macchi - gennaio 1987 - reggono ancora e quali reggono un po’ meno? Volendo tirare le fila di quello che è successo finora nell’aula bunker del tribunale di Varese, ecco che cosa è emerso, con le prime testimonianze, a favore dell’imputato e contro di lui.
Contro Binda
Il quarantanovenne di Brebbia è finito sotto accusa perché la Procura generale di Milano lo ritiene autore della lettera anonima “In morte di un’amica” e perché ritiene l’estensore autore anche del delitto.
Da questo punto di vista è stata sentita in aula la grafologa Susanna Contessini, consulente del pm Gemma Gualdi, che non ha il minimo dubbio: «Gli elementi grafici comuni (tra lettera anonima e testi attribuiti con certezza all’imputato, ndr) sono tali e tanti che dire che a scrivere l’anonimo non è stato Binda ma un’altra persona sovvertirebbe tutte le leggi grafiche della mia professione».
Vero è anche che un esperto grafologico, perito del Tribunale di Verbania nonché ex ispettore della polizia di Stato, l’ispettore oggi in pensione Fortunato Marcovicchio, ha in tempi non sospetti da queste colonne argomentato come Stefano Binda non possa essere l’autore di quella lettera (clicca QUI).
Altro punto a favore dell’accusa quanto dichiarato in aula da un consulente merceologico. Il foglio dell’anonimo proviene da un quaderno ad anelli identico a quello sequestrato a Stefano Binda: lo dicono il tipo, l’invecchiamento e le dimensioni della carta e lo dicono i buchi per gli anelli, che presentano le stesse micro imperfezioni nel taglio.
Dunque l’anonimo è scritto con una calligrafia quanto meno molto simile a quella dell’imputato e proviene da un blocco identico a quello che l’imputato ha tenuto nella sua camera per trent’anni. Inoltre, sempre a proposito della lettera, l’ultima udienza dell’altro ieri, ricca di colpi di scena, ne ha garantito uno anche in relazione ad essa.
Patrizia Bianchi, la superteste che per prima ha notato la somiglianza tra la grafia di Binda e quella dell’anonimo, ha scritto alla Corte e dichiarato alla polizia che Stefano, nel corso dell’ormai famosa visita al parco Mantegazza di Masnago, posizionata nel tempo dopo il delitto, ma in modo nebuloso, aveva con sé una lettera che voleva consegnare o spedire ai Macchi e ne parlò battendosi il torace con una mano. La Corte deve decidere se Bianchi potrà riferire in aula la circostanza, mai emersa prima.
A favore di Binda
Altro colpo di scena dell’udienza di mercoledì: c’è un secondo teste che sostiene che Binda era in vacanza a Pragelato tra il primo e il 6 gennaio 1987 (Lidia sparì la sera del 5). Uno lo ricorda al bar, l’altro nel letto a castello, sotto di lui. E tutti gli altri partecipanti, che non ricordano la presenza di Binda in montagna, non per questo ricordano con certezza che non c’era.
Un altro colpo di scena a favore di Binda, o meglio un annuncio di colpo di scena, risale invece alla prima udienza, quando l’avvocato Piergiorgio Vittorini di Brescia ha fatto sapere che un suo cliente gli ha chiesto di dire in aula che è l’autore dell’anonimo.
L’avvocato farà il nome? Per il momento non si sa, ma perché il colpo di scena sia veramente tale - e questo sarebbe davvero decisivo - è impensabile che l’anonimo continui a restare anonimo. Infine dalle numerose testimonianza di ex ventenni degli anni Ottanta che come Lidia e Stefano avevano frequentato il liceo “Cairoli” ed erano di Cl, non è emersa l’esistenza di un legame stretto tra i due ragazzi.
Anche con le amiche più care e con la mamma Lidia non parlò mai di Stefano (mentre tutte sapevano di una sua infatuazione per Angelo Sala) e non si capisce perché avrebbe dovuto tenere segreta la relazione con un giovane che la pensava come lei ed era ritenuto da tutti brillantissimo.
Chiaramente una semplice conoscenza non quadra molto con quanto sarebbe avvenuto la sera del 5 gennaio 1987 secondo l’accusa: un incontro con una persona nota seguito da un rapporto sessuale e dalla furia di 29 coltellate. E inoltre l’interesse di Lidia per la droga sarebbe stato determinato dai problemi di altre persone e non di Stefano: mercoledì la teste Nicoletta Buzzetti ha dichiarato tra l’altro che fu don Fabio Baroncini a raccontare la storia di Letizia, che si era fatta coinvolgere da un tossicodipendente, raccomandando di non agire da soli e di parlare di questi problemi con un adulto.
© Riproduzione Riservata