L’ADDIO
Quel giorno che Ettore Mo incontrò i Beatles
E’ morto ieri a 91 anni il cronista che ha raccontato la storia. La surreale chiacchierata con la band nel 1965 su un treno diretto a Londra: «Ragazzini, però geniali»

Ettore Mo se n’è andato, stavolta senza valigia. Spenti gli occhi dolci, fermo il cuore grande, immobili quelle gambe che a dispetto del suo metro e 57 hanno perlustrato gli inferi del mondo terreno, laddove la cattiveria dell’essere umano non ha limiti eppure mai riesce spegnere la fiammella di luce in fondo al tunnel. Ettore Mo, uno dei più grandi inviati nella storia del giornalismo italiano, nei suoi reportage riusciva sempre a farla vedere, quella fiammella. Come la storia dei ragazzi romeni che popolavano le fogne di Bucarest negli anni Novanta, i quali lenivano i morsi della fame (e della vita) sniffando colla e vernice: «Una delle poche volte in cui si può dire che il giornalismo serve a qualcosa», ironizzava, raccontando di essere sceso sottoterra e di averli portati in trattoria per farsi raccontare le loro storie. Il clown francese Miloud Oukili si interessò a loro, portandoli con sé in giro per il mondo a fare spettacoli. «Qualcuno ancora si ricorda di me…». A quel punto della storia non solo gli occhi ma tutto il viso di Mo, solcato dalle rughe, si addolciva.
Non che l’anzianità fosse un problema, per lui. Anzi. Che avesse 50 o 70 anni con i suoi “capi” in redazione ha sempre insistito - fin quasi a irritarli - per essere inviato in qualsiasi tunnel lungo la «faccia buia della Terra», anche il più profondo e pericoloso. Non certo per manie di protagonismo e nemmeno puntando all’eroico scoop, ma perché era giusto così: il giornalista deve vedere, deve vivere ciò che racconta. È il suo lavoro. Principi eversivi, oramai.
Basta un clic sullo smartphone e sei subito connesso, finendo per informarsi con la stessa distratta emozione sia delle botte menate tra vicini di casa per la cacca dei cani sia delle bombe sganciate anche sui bambini per una regione o un lembo di terra conteso.
Ecco perché ora senza Ettore Mo il mondo, non solo giornalistico, è molto più povero. Lui di certo non avrebbe apprezzato questa retorica post mortem, quell’abbaglio momentaneo tipicamente italico per cui una volta defunti si diventa tutti buoni, eppure è vero: l’inviato con quel cognome monosillabico su cui talvolta faceva giochi di parole (memorabile l’incipit di un’intervista a Dario Fo) documentava gli orrori e le speranze dell’umanità sempre con la stessa disincantata passione.
Il che non è una contraddizione bensì la regola giornalistica di base per essere il più possibile obiettivi. Unici strappi alla regola: l’amato Lago Maggiore, dove ha vissuto a lungo (a Dagnente, frazione di Arona), e quando giocava la Juventus. Ettore Mo applicava quell’inimitabile asciuttezza narrativa ovunque andasse: tra i talebani in Afghanistan o sotto le bombe in Cecenia, a documentare la guerra “intelligente” in Iraq o il ritorno di Khomeini in Iran, a vedere le fosse comuni nella ex Jugoslavia o i cadaveri di duemila palestinesi a Sabra e Chatila nel 1982. È morto proprio nei giorni in cui Israele, il Medio Oriente, sprofonda nell’incubo.
«È partito per l’ultima grande corrispondenza», si legge sul manifesto funebre che annuncia una cerimonia nella Collegiata Santa Maria di Arona il 13 ottobre alle 15. Inutile chiedersi che cosa e come avrebbe scritto lui, ora: resta la sua rigorosa lezione di giornalismo, purtroppo non per molti. Era unico nel far comprendere una tragedia senza mai chiamarla tragedia, evitava di deragliare verso aggettivi pleonastici. Articoli e libri di Ettore Mo dovrebbero essere studiati nelle scuole: magari - piccolo suggerimento al ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara - riuscirebbero a stimolare un dibattito non ideologico fra gli studenti anche sugli ultimi accadimenti in Medio Oriente.
Fu nel 1979, già attempato anzi «matusa», come diceva lui, la prima missione di Ettore Mo come inviato di guerra, affidatagli dall’allora direttore del Corriere della Sera, Franco Di Bella, dopo averlo fermato in corridoio: «Se hai il passaporto in regola preparati a partire per Teheran», gli disse. Ma come, proprio lui, che fino ad allora si era occupato della Scala e del Piccolo Teatro, di scampoli di cronaca schiacciati a fondo pagina e per anni senza l’onore della firma? «Avevo 47 anni: fino a quel momento ero il milite ignoto del Corriere...». La modestia di Ettore Mo era spiazzante, non c’erano rulli di tamburi quando accettava di raccontare l’evento memorabile di cui era stato testimone, fosse l’amicizia con Ahmad Shah Massoud, il “leone del Panshir” ucciso nel 2001 dai terroristi islamici due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle, o la surreale chiacchierata con i Beatles nel 1965 su un treno diretto a Londra. Inutile manifestare sorpresa, ammirazione, stupore quando parlava Mo: «I Beatles? Ragazzini. Però, erano geniali…».
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