IL SOPRAVVISSUTO
Ghisellini: «Io, vivo per miracolo»
Il direttore di Acof racconta i 134 giorni di ospedale dopo un gravissimo incidente

«Non dimenticherò mai il giorno in cui ho potuto riprendere in mano un bicchiere, versarmi un sorso d’acqua e bere da solo. È stato meraviglioso».
Cinque mesi dopo quella terribile sera di ottobre, in cui una moto lo centrò mentre attraversava la strada, Mauro Ghisellini è una persona diversa. «Certamente ferita nel fisico - dice lui - ma molto maturata nell’approccio con la vita. Ho capito quali sono le cose veramente importanti, anche se sono piccole e banali».
Oggi il direttore degli istituti Olga Fiorini e manager di livello nazionale nel settore dell’educazione, è tornato a casa dopo il lungo calvario dovuto al terribile incidente. Lì ci starà per un po’, uscendo solo per fare la riabilitazione, anche per colpa della minaccia coronavirus.
«Ma dopo quello che mi è accaduto - scherza - mi sento di dire che non ho poi così paura del contagio».
Mauro Ghisellini, partiamo dalla cosa fondamentale, come sta?
«La cosa fondamentale è che sono qui a raccontarla. Ho passato 134 giorni in ospedale, di cui i primi in coma e ben 63 in Rianimazione a Legnano, dopo di che sono stato trasferito a Gallarate. Dire come sto è difficile: è stata dura e sarà ancora lunga, faccio fatica a fare tante cose ma, rispetto alle condizioni iniziali, mi sento un miracolato. Considerando il quadro clinico spaventoso di ottobre, direi che sto benissimo».
Sa che quella sera c’erano poche speranze di riuscire a salvarla?
«Certo e infatti ripeto: è stato un miracolo. Il primario della Neurologia gallaratese Davide Zarcone ha dato un’immagine perfetta al mio caso: secondo lui è come se in quegli attimi, mentre facevo un volo di venti metri, avessi in testa un casco, anche se in realtà ero a piedi a passeggio con il cane. Neppure i medici si spiegano come abbia fatto a sopravvivere. Sa cosa hanno fatto i dottori di Legnano quando mi hanno dimesso dopo due mesi?».
Che cosa?
«Hanno voluto fare a tutti i costi una foto ricordo. Dicevano che era una cosa straordinaria, incredibile, memorabile. E in effetti, in quell’ospedale, ci sono arrivato più distrutto che aggiustato. Nello schianto ho rotto 14 costole, bucato un polmone, distaccato un’aorta, spaccato il bacino e pure un rene, così come una spalla, il braccio destro e una gamba. Questo per dire alcuni aspetti, perché si era rotta pure la mascella e, per finire in bellezza, quando è stata fatta la tracheotomia mi è stata tagliata una corda vocale. Ho persino fatto la dialisi. La lista è molto più lunga, ma mi sembra di aver reso il concetto».
Cosa ricorda del momento in cui fu investito?
«Niente, zero. Ho l’immagine di me che camminavo sulle strisce pedonali e poi un vuoto assoluto, finché non mi hanno definitivamente risvegliato dal coma farmacologico. Il punto è che ero quasi morto e che adesso sono qui».
Questa vicenda quanto le ha cambiato la vita?
«Tantissimo dal punto di vista pratico. Fatico a camminare, non posso guidare, ho per ora una mobilità complicata e per un po’ devo rinunciare ai miei viaggi. Ho anche perso venti chili, un disastro. Ma piano piano mi rimetterò in sesto».
E quanto, invece, questa storia le ha cambiato il modo di vedere la vita?
«Certamente quello che è successo mi ha modificato nel profondo. Ho capito quanto le piccole cose contino quando non le hai. Non dimenticherò la sofferenza di non poter uscire, bere, mangiare, abbracciare. Ma ancor meno dimenticherò la felicità di quando ho ricominciato a fare questi gesti. Adesso ogni minima riconquista è per me la più grande del mondo».
Lei è anche una persona di fede. Pensa che nella sua salvezza ci sia qualcosa di più dei medici bravi e della semplice fortuna?
«Lo credo profondamente. Mi hanno raccontato delle tantissime persone che pregavano per me, non tutte cattoliche ma tutte speranzose che ce la facessi. Quella notte i medici hanno detto ai miei cari che ero gravissimo, quasi a prepararli al fatto che non mi avrebbero avuto più. Io penso però che qualcuno di più grande mi abbia accompagnato in quel tremendo volo. Forse ha ragione il dottor Zarcone: prima che cadessi al suolo, mi ha infilato un casco per proteggermi».
Uno con la vita piena come la sua, come ha trascorso la lunga degenza?
«Per me stare fermo e non fare niente è stata una tortura. Ogni mattina, al risveglio, guardavo il soffitto della stanza e mi chiedevo come fosse possibile che uno che prende 150 voli aerei l’anno dovesse poi ritrovarsi in quella situazione capitata mentre camminava con il suo cagnolino. M poi mi dicevo: dai Mauro che ce la fai».
Dalle sue parole sembra che, in quale maniera, lei esca rafforzato da questo momento terribile...
«In effetti è così. Certo il fisico non è più quello di prima, ma sto gradualmente recuperando. Viceversa nella mente mi sono fortificato: ho imparato che nella vita è proprio la vita stessa la cosa più importante. Un tempo mi inorgoglivo per l’onorificenza ricevuta dal presidente della Repubblica, adesso mi rendo conto che quello è niente al confronto a tante cose più banali».
Ciò non toglie che lei abbia voglia di ricominciare anche in ambito lavorativo...
«Ci mancherebbe, anzi in parte l’ho già fatto. In ospedale avevo sempre in mano l’ipad per scrivere mail e studiare le carte. Ora che sono uscito ho fatto pure un salto a scuola per salutare tutti. Il fatto è che proprio non sono capace di stare a casa. I dottori non sono troppo contenti di questa mia esuberanza, mi dicono di essere prudente e più paziente».
E lei cosa risponde?
«La verità, vale a dire che è verissimo che sono vivo per miracolo, ma questo non è sufficiente. Voglio anche continuare a sentirmi vivo».
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