CORONAVIRUS
Terapia intensiva sotto pressione
Al Circolo sono circa 50 i posti occupati, c’è ancora spazio ma le cure sono lunghe

«La situazione è più stabile ma abbassare la guardia in questo momento sarebbe un errore grave». Le terapie intensive dell’ospedale di Circolo a Varese cominciano a dimettere i pazienti.
L’annuncio viene da Carlo Capra, capo del dipartimento di Anestesia e da Paolo Severgnini, primario di Anestesia e rianimazione cardiologica e direttore della Scuola di specializzazione all’Università dell’Insubria.
E questa è la novità. Una decina, dallo scoppio dell’emergenza, sono i pazienti trasferiti in altri reparti. Il primo dimesso dalla Terapia intensiva cardiochirurgica, un medico di Bergamo che è uscito a fine marzo, torna a casa, a Bergamo, in queste ore. «Una buona notizia che è emblematica però anche di quanto il percorso di recupero sia lungo - racconta il professor Severgnini -. Basti pensare che il paziente era stato intubato per tre settimane e che per altre due settimane abbondanti è rimasto in ospedale: la riabilitazione, per questi malati, è di solito lunga e complessa».
Naturale che chi è stato intubato per settimane o comunque ha avuto bisogno di sostegno alla respirazione e controllo dei parametri vitali per tanti giorni, non possa tornare dalla sera alla mattina a casa.
A fronte di notizie positive, vi sono anche quelle dei ricoveri che sono costanti e non diminuiscono. In alcun modo.
La stabilità di cui parlano i responsabili delle Terapie intensive è riferita soltanto «al fatto che la rivoluzione di spazi nuovi e postazioni per pazienti create nelle scorse settimane si è stabilizzata». E anche se formalmente di numeri non ne vengono forniti, facendo un rapido conto rispetto agli spostamenti e alla creazione di posti di Terapia intensiva ricavati anche nelle sale operatorie, non si sbaglia di molto a dire che oggi i pazienti Covid sono poco meno di 50.
Ciò non significa che se vi fosse una impennata di ricoveri ulteriori, a Varese, non si trovi posto nei reparti a più alta intensità di cure. La capacità di “ricezione” è ancora ampia. Ma se all’inizio della pandemia la maggior parte dei malati proveniva da altre province ed era da intubare, ora la situazione è diversa: alcuni ancora provengono dalle zone fortemente colpite dal coronavirus, ma il numero dei “nostri” pazienti è sempre più alto.
La pressione da fuori della zona del Varesotto si è ridotta ma le degenze «sono particolarmente lunghe» e i pazienti che arrivano nelle Terapie intensive ne usciranno dopo tre o quattro settimane.
«Non solo le degenze sono particolarmente lunghe ma va considerato che i pazienti che stubiamo e hanno una maggiore autonomia respiratoria non possono essere trasferiti subito in altri reparti - dicono Capra e Severgnini -. Devono essere stabili da qualche giorno, per scongiurare un nuovo ulteriore peggioramento e la possibilità che possano avere bisogno di altre cure intensive».
Raccontano, i due anestesisti, che «la ripresa è lunga e complessa, e l’avere bisogno di giorni e giorni di riabilitazione indica quanto complicato sia il percorso di recupero». I due medici spiegano che «in alcun modo si può abbassare la guardia».
Intanto continua l’utilizzo della tecnologia per fare comunicare i pazienti con i loro parenti a casa. Poiché nessuno, tranne il personale, può entrare nei reparti Covid, la comunicazione tra malati che si risvegliano dopo giorni o sono comunque in grado di interagire con i loro famigliari, diventa molto complicata. A garantirla, l’uso di cellulari e tablet per videochiamate, strumenti che sono stati potenziati e che vengono utilizzati anche dai medici per dialogare con i parenti dei ricoverati, tramite videochiamate, al posto dei colloqui di persona che evidentemente sono impossibili da svolgere.
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