COLD CASE
Cristina Mazzotti, nuovo processo dopo 47 anni
Prima donna rapita dall’Anonima sequestri nel 1975, morì a 18 anni. Mai condannati i mandanti, ora quattro rinvii a giudizio

Ci sono fatti di cronaca che segnano un’epoca, per una lunga serie di motivi il rapimento di Cristina Mazzotti è sicuramente uno di questi. Perché Cristina fu strappata alla sua famiglia quando aveva appena compiuto 18 anni, perché fu la prima donna rapita dall’Anonima sequestri, perché il processo che negli anni Settanta fu celebrato a Novara non bastò per capire quello che era davvero accaduto. Ma anche perché con il sequestro suo e di tanti altri sfortunati la ‘ndrangheta calabrese mise le sue radici in Lombardia, dando il via alla costruzione del suo impero al nord. Non è un caso quindi se negli ultimi mesi la Direzione distrettuale Antimafia di Milano si è occupata del caso Mazzotti, per il quale ieri l’altro, lunedì 9 gennaio, il pubblico ministero Stefano Civardi ha chiesto il rinvio a giudizio di quattro persone.
Tra loro, anche il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, ritenuto l’ideatore del sequestro.
Cristina era stata rapita il 30 giugno 1975: aveva compiuto 18 anni da una settimana, con il fidanzato e un’amica era andata a festeggiare il diploma appena ottenuto al liceo. Mentre con la Mini gialla del fidanzato stava rientrando nella villa di famiglia a Eupilio (Como), i tre erano stati fermati ad Appiano Gentile da tre uomini mascherati scesi da una Fiat 125. I tre misero un cappuccio in testa alla ragazza e la infilarono in auto, per un mese la sua famiglia non seppe più nulla di lei. Poi il 4 luglio il padre Helios ricevette una telefonata: un uomo che si definiva “il marsigliese” chiedeva un riscatto di 5 miliardi di lire, una cifra che la famiglia semplicemente non aveva. Nella seconda telefonata, avvenuta il primo agosto, Helios si dichiarò disposto a pagare un miliardo e cinquanta milioni, tutto quello che aveva. I rapitori accettarono, i soldi dovevano essere consegnati la sera stessa in un bosco di Castelseprio. La telefonata per concordare le modalità del pagamento fu fatta da una cabina telefonica di Varese, gli inquirenti riuscirono a fotografare “il marsigliese”.
Ma ormai a quel punto per Cristina era troppo tardi: la sera stessa del rapimento era stata portata in una cascina a Castelletto Ticino, che era stata presa in affitto da una coppia che aveva già preparato la cella dove sarebbe stata richiusa fino a morire di stenti: una buca profonda poco meno di un metro e mezzo, lunga poco più di due metri e mezzo e larga 155 centimetri. Il ricambio d’area era garantito da un tubo di plastica del diametro di 5 centimetri, imbottita di tranquillanti la ragazza resistette fino al 30 luglio, il giorno prima del pagamento del riscatto.
Con i mezzi che avevano a disposizione all’epoca, gli inquirenti fecero miracoli: il primo settembre avevano già messo le mani su un membro della banda che stava cercando di riciclare in Svizzera parte del riscatto: fu lui a indicare la discarica di Varallino di Galliate dove era stato sepolto il corpo e a fare i nomi dei complici. Nel 1976 il processo che si tenne a Novara si concluse con 8 ergastoli e 9 condanne minori, ma il caso non era ancora chiuso.
Telefonisti, basisti, carcerieri e riciclatori erano stati arrestati, ma ancora non si conoscevano i nomi dei mandanti e degli esecutori materiali del rapimento. Tanto che del miliardo e 50 milioni pagato da Helios Mazzotti gli inquirenti riuscirono a recuperare solo 104 milioni. Nel 1994 nel processo “Isola Felice” il pentito Antonio Zagari disse che sì, suo padre Giacomo e Giuseppe Morabito avevano ideato il rapimento, ma poi si erano ritirati perché pensavano che nella banda ci fosse un confidente. Negli anni ‘90 furono però coinvolti in un nuovo filone dell’indagine altri due uomini della ‘ndrangheta, Domenico Loiacono e Francesco Aquilano, che secondo gli inquirenti si erano divisi 800 milioni del riscatto.
Le indagini furono poi riaperte nel 2007, quando fu possibile associare un’impronta che era stata rilevata nel 1975 al nome di un altro uomo d’onore, Demetrio Latella. Nel 2012 però il Tribunale di Milano archiviò il caso, che restò in un cassetto fino a quando nel 2015 le sezioni riunite della Cassazione sentenziarono che un omicidio volontario non può essere prescritto.
Da qui il ricorso presentato nel 2017 dall’avvocato della famiglia Mazzotti Fabio Repici, che ha dato il via alla nuova inchiesta coordinata dalla Dda e condotta dalla Squadra mobile di Milano. Indagine che si è chiusa lo scorso novembre, e che ieri ha determinato il rinvio a giudizio di Latella, di Giuseppe Calabrò, di Antonio Talia e del boss Morabito, che oggi ha 78 anni. Dal giugno 1975 è passato quasi mezzo secolo, ma ora la verità è un po’ più vicina.
© Riproduzione Riservata