CONTRO LA 'NDRANGHETA
Dal Sacro Monte all'Aspromonte
Le battaglie del varesino Natale Bianchi, parroco antimafia di Gioiosa Jonica espulso dalla Chiesa ma rimasto in Calabria a lottare
«Il coraggio uno non se lo può dare», dice don Abbondio nel capitolo XXV dei Promessi Sposi. E per scegliere di restare nella Calabria degli anni '70, soffocata dalle nuove generazioni di picciotti che stavano modellando un volto più feroce che mai alla 'ndrangheta, un po' di coraggio bisognava averne in proprio. Soprattutto se il "don" in questione, che non si chiamava Abbondio, ma Natale, era varesino di nascita, aveva studiato a Ivrea dai Salesiani, a 20 anni aveva fatto il missionario in Asia. E nel declinare di quegli anni '70, sospeso "a divinis", divenne un prete spretato, un prete "imperfetto".
Non bisognava essere necessariamente un don Abbondio, a quel punto, per desiderare di mollare tutto e magari tornarsene nella più confortevole Varese della Ignis e della Mazzucchelli. Invece don Natale Bianchi (che ogni tanto a Varese ci ritorna a trovare i fratelli sparsi tra Morosolo, Besozzo e Capolago), ormai ex parroco della chiesa di San Rocco a Gioiosa Jonica e animatore delle prime comunità di base in Calabria (era arrivato nel 1968) decise di restare. Da prete imperfetto si trasformò in organizzatore di cooperative dove negli anni hanno lavorato circa 200 persone confezionando camicie («Nei tempi d'oro - ricorda adesso - ne producevamo fino a 50mila al mese per Benetton»), creando un'alternativa concreta all’economia di marca mafiosa. Oggi a 74 anni, pensionato, sposato, padre di un figlio, radicato più che mai nella sua Giosa Jonica dice di quella scelta: «Venir via sarebbe stato come abbandonare il campo di battaglia e tradire quelli che avevano creduto nell'esperienza che avevamo avviato. Anche se non è mai stato facile vivere accerchiati».
Quella del prete imperfetto di Gioiosa Jonica è una storia che riemerge a tratti come un fiume carsico da libri e vecchi filmati. Così qualche giorno fa RaiStoria ha ritrasmesso un'inchiesta del 1977 sulla 'ndrangheta realizzata in Aspromonte per "Tg2 Dossier" dal giornalista Giuseppe Marrazzo. Tra i tanti testimoni ripresi dalle telecamere c'era anche lui, don Natale, attorniato dai suoi parrocchiani, in pantaloni e maglietta («Non ho mai portato la tonaca», rivendica adesso) davanti all'altare della chiesa dalla quale aveva promosso una delle prime comunità di base in Italia che cercava di opporsi alla sempre più opprimente sottocultura mafiosa: «Avevo portato le donne in piazza a parlare pubblicamente - racconta - soprattutto nei giorni della festa patronale che era (ma è ancora oggi in tanti paesi del Sud) un'occasione di visibilità per i capibastone. Noi abbiamo cercato di emarginare quelle persone dalla gestione della festa e ne abbiamo subito le conseguenze, con minacce e attentati come quando ci hanno bruciato un pullmino».
A quell'epoca a don Natale era stato intimato dal vescovo di Locri di lasciare la chiesa che invece lui, con i suoi parrocchiani, aveva occupato: «A un certo punto - rammenta - vennero i carabinieri a sgomberarci».
Un paio d’anni dopo quel servizio di "Tg2 Dossier" l’avventura di don Natale, oppositore delle cosche, trovò spazio nel libro-inchiesta di Corrado Stajano, Africo, (Einaudi 1979). E poi in pubblicazioni recenti come il volume scritto a quattro mani da don Giacomo Panizza (altro prete antimafia di origini bresciane) e Goffredo Fofi, Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso, (Feltrinelli - 2011) e ne I preti e i mafiosi, storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica di Iasaia Sales (Baldini Castoldi Dalai - 2010). Erano, quegli anni 70, l'epoca di un altro prete, don Giovanni Stilo, parroco di Africo Nuovo, controverso personaggio ritenuto colluso con le cosche, molto influente nella Chiesa della Locride (don Stilo venne arrestato nel 1984 per associazione mafiosa: fu condannato in primo e secondo grado, ma le sentenze vennero annullate in Cassazione. Nel maggio 1989 fu assolto con formula ampia dalle accuse nel successivo processo a Catanzaro).
Di don Stilo, il prete imperfetto Natale Bianchi ha un ricordo personale molto vivace: «Diceva che la mafia non esisteva, che l'avevano inventata i comunisti per imbrogliare la povera gente. A me in un'occasione disse che, se voleva, avrebbe potuto schiacciarmi come una formica. Una frase pronunciata davanti ad altri sacerdoti nella sede della diocesi. Rimasi stupefatto dal silenzio generale che ne seguì».
E nel libro di don Giacomo Panizza (a pagina 220) si legge a questo proposito: « (...) don Natale Bianchi accusava don Stilo di trafficare con potenti corrotti, e io mi meravigliavo che la Chiesa li lasciasse scontrare senza prendere posizione. Io riflettevo tra me se non fosse perché don Natale veniva da fuori e, pertanto, come me, aveva particolari difficoltà a cogliere certe peculiarità della mentalità locale».
Certo venire da fuori e aver fatto esperienza in Tailandia e in India poteva avere un suo riflesso: «In Oriente - spiega oggi Natale Bianchi - mi confrontavo con altre religioni che erano maggioritarie, mentre io venivo considerato come un corpo estraneo. Il che mi costringeva a verifiche e a interrogarmi sul mio cattolicesimo, mentre in Italia la Chiesa faceva bottega del sacro».
Ma quelli non erano solo gli anni di don Stilo e di qualche pulmino bruciato. Il 12 marzo di 35 anni fa, proprio a Giosa Jonica, venne assassinato a colpi di lupara Rocco Gatto, un mugnaio, lui sì comunista, che non voleva pagare il "pizzo" e che firmò la sua condanna a morte denunciando gli estorsori. Don Natale lo conosceva bene: «Organizzai delle manifestazioni per far sì che questo delitto non cadesse nel silenzio, così come feci quando ero vicerettore del seminario di Locri per altri delitti di ’ndrangheta, cercando anche di coinvolgere i ragazzi delle scuole dove insegnavo. E attirandomi le proteste dei presidi».
Oggi, in pensione, Natale Bianchi non ha smesso di lottare. Lo fa attraverso alcuni blog in Internet (il più aggressivo si chiama "Civitas Gioiosa-cittadini attivi") nei quali alterna segnalazioni sul degrado urbano a notizie commentate sui fenomeni di criminalità locale, attirandosi spesso strali e invettive da anonimi dissuasori.
Dagli anni ’70 ad oggi la 'ndrangheta è diventata una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo e ha messo solide radici anche nella provincia di Varese come hanno certificato alcune clamorose inchieste della magistratura (da "Isola Felice" della metà degli anni '90 all'ultima operazione, "Infinito", di un anno e mezzo fa) e come confermano i lampi quotidiani della cronaca spicciola tra arresti e sequestri di beni.
«La ’ndrangheta in passato è stata sottovalutata. Intanto lei si adeguava ai cambiamenti e ai posti nuovi come Varese, il Nord Italia o il resto d’Europa - sospira Natale Bianchi -. Qui se ti rubano la macchina, parlando con la persona giusta magari la ritrovi. Al politico che vuole andare in Parlamanto e ha bisogno di voti, fa trovare i voti. E a chi ragiona in termini di affari, fa trovare buoni affari».
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