L’INTERVISTA
In pensione il prof politico
Sebastiano Nicosia da diciannove anni era vicepreside del Liceo Scientifico: il suo impegno tra matematica e Comune

Se si pensa alla figura del professore come un uomo di cultura, un formatore, un educatore, un riferimento e una persona costantemente motivata dalla curiosità verso il sapere, non si può che pensare che Sebastiano Nicosia abbia incarnato al meglio questa professione.
Non lo dirà mai in prima persona, non ha mai apprezzato parlare di sé in termini di elogio.
Ha sempre messo davanti il gruppo, l’istituzione, il sistema scolastico. Anche nel parlare della sua carriera, da quella prima lezione dell’annata 1979/’80, all’ultima campanella prima dell’imminente pensione.
Il suo pensiero va a chi ha incontrato.
«Ho conosciuto - dice - tante persone che restano nell’ombra ma che danno davvero tanto per rendere la scuola un bel posto. È giusto che vada a loro un riconoscimento particolare: perché oggi la scuola è un centro di offerta culturale».
Ora, a 63 anni, è tempo di appendere il registro al chiodo, ma non c’è malinconia.
«È fisiologico e giusto. Serve che i vecchi esperti si facciano da parte per permettere ai giovani di portare nuovi sviluppi ed evoluzioni».
Si pensa sempre all’ultima campanella per gli studenti, ma com’è stato quel suono per chi sta si è seduto per l’ultima volta dietro alla cattedra?
«Emozionante. Ammetto che comunque ora sono impegnato con gli esami di maturità, per cui non ho ancora ben realizzato che è finita. Ci saranno anche gli scrutini di settembre, quelli dei debiti formativi: ma credo che il momento in cui davvero realizzerò che è stata l’ultima volta arriverà alla fine degli esami di maturità. L’ultima campanella l’ho vissuta con i ragazzi, hanno un altro punto di vista, ma ho visto in loro consapevolezza di quello che rappresentava quel momento anche per me».
Possiamo dire che da quando è entrato in classe da studente, non è mai uscito, ma ha solo cambiato punto di vista?
«In realtà c’è stato un periodo della mia vita fuori da scuola: quando ho fatto il servizio militare. Ho iniziato a insegnare a 24 anni. Quando sei giovane ci pensi meno al passaggio che stai vivendo: oggi lo faccio perché ho maggior consapevolezza, ma quando inizi sei quasi spensierato, ed è anche giusto e bello così».
«Ricordo - prosegue il prof - il primo giorno di scuola, al Liceo Grassi di Saronno. Avevo anche una classe alla Piccoli di Gallarate, ma la prima ora di lezione è stata lì. Sapevo che c’era una grande responsabilità e gli anni di differenza erano pochi. Io ne avevo 24, ma loro 16, 17. Per fortuna è un lavoro che ti impegna tanto e mi ha dato poco tempo per pensare a questa cosa, lì sul momento».
In questi anni mi è capitato di osservarla sul luogo di lavoro ed è chiaro che la sua presenza non è stata solo quella di un professore, ma di una persona che mette tanto di sé in quello che fa.
«È stata una fortuna e un onore essere anche vicepreside per 19 anni. Ci sono stati tanti cambiamenti, ora la scuola è un’altra cosa rispetto a quando ho iniziato. È stata una bella esperienza, soprattutto umana, sia con gli studenti che con i colleghi: persone che ho incontrato sempre molto volentieri anche fuori da scuola. Sono esperienze che ti fanno crescere umanamente. Quando poi entri in un ruolo organizzativo, ti concentri sull’aspetto umano, c’è il rapporto con le famiglie, vedi le cose da altri punti di vista. Ho avuto tante persone che mi hanno dato una mano».
C’è da dire che lei non è stato un semplice professore di matematica. Il suo modo d’insegnare ha assunto una valenza quasi umanistica, vien da pensare che sia stata ai limiti del filosofico, mi sbaglio?
«È vero, sono sempre stato attratto dalle materie umanistiche, mi relazionavo anche abbastanza bene da studente a quelle materie, per cui sì, mi sento un po’ un umanista, perché sono sempre stato curioso. Più che filosofo direi proprio umanista perché ho sempre cercato di vedere la matematica in un contesto più ampio».
Quasi 40 anni di insegnamento: quanto è cambiata la scuola, anche dal punto di vista della fattura umana di chi la compone?
«È cambiata la società: oggi agli studenti si chiede di più a livello di competizione. Perché ora il titolo di studio non ha più il peso di prima: ci sono i test di ingresso in praticamente tutte le discipline universitarie, e laddove non c’è pesa la conoscenza che ti porti dietro. La scuola ne esce più responsabilizzata, perché deve preparare i ragazzi al mercato del lavoro. Poi c’è un altro aspetto da considerare: oggi la scuola non è più l’unico depositario della conoscenza. Viviamo in un momento dove c’è un eccesso di informazioni a disposizione, il professore è quella figura che deve essere in grado di selezionare i dati giusti e fornirli alla classe. È un processo che avviene prima della conoscenza vera e propria, è un aggiornamento continuo che ti spinge a dare un’impronta delle priorità».
Quali sono stati i momenti migliori e i più difficili di questi anni?
«Difficile dirlo così: dal punto di vista personale, nella mia professione, ti accorgi che arrivi in un’età dove puoi permetterti di non essere più quella figura rigida e severa. Gli alunni non ti vedono più semplicemente come un professore, ma come una persona che merita la loro fiducia, e magari anche stima. Ecco quello è il momento più bello, soprattutto quando te ne rendi conto. Poi ci sono i momenti difficili, quelli dove ti accorgi che non riesci a migliorare la situazione di uno studente: che non riesci ad aiutarlo e a fargli passare gli strumenti per risollevarsi».
In questi anni di scuola, è arrivato anche il momento di dedicarsi alla politica, com’è nata questa esigenza?
«Ho iniziato tardi, a 56 anni. Ho sempre seguito la politica nazionale, anche senza essere attivo. È stato merito di Edoardo Guenzani se ho capito che era venuto il momento di metterci la faccia: un incontro quasi casuale, ho visto in lui la persona giusta in un momento giusto. Si è creato un bel gruppo e ora, col senno di poi, mi sento di consigliare a tutti di dedicare una parentesi della propria vita alla propria città: credo che sia un dovere civico. Ho individuato nei dieci anni il tempo giusto, non credo che ci debbano essere politici di professione, soprattutto a livello locale».
Per un professore assumere il ruolo di assessore alla cultura sembra davvero un riconoscimento di un impegno politico sotto l’aspetto civico: com’è stata questa esperienza e come vede culturalmente una città come Gallarate?
«Per me è stato un onore avere quel ruolo. Gallarate è una città molto viva, ha una realtà di eccellenza molto grande rispetto alle sue dimensioni. La cosa importante, la vera sfida, è quella di riuscire a coordinare tutte le realtà culturali che ha al suo interno. C’è una tale ricchezza di proposte che si corre il rischio di disperdere le energie. Riuscire a ottimizzare e coordinare le associazioni e le realtà che abbiamo sul nostro territorio è un impegno maggiore rispetto ad altre città».
Come vede la sua giornata da settembre, quando non ci saranno appelli da fare?
«La fortuna di questo lavoro è che ti tiene impegnato e attivo con la mente. Andare in pensione non significa non fare più nulla, per cui spero che quello che so fare possa essere ancora utile. Ho diversi progetti in mente, per cui non mi vedo inattivo, ma sempre impegnato in un ambiente scolastico: poi il modo in cui lo sarò si vedrà».
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