CORONAVIRUS
I medici eroi costretti a diventare untori
Molti si ammalano, altri sanno di essere positivi ma i tamponi per loro non ci sono. E c’è chi manda i figli a vivere altrove

Sono gli eroi di questa battaglia, senza dubbio. Ma sono talmente allo sbaraglio da rischiare di diventare vittime se non addirittura untori inconsapevoli di questa emergenza senza fine. È il destino che accompagna medici e infermieri operativi negli ormai cinque reparti che l’azienda ha strutturato dentro l’ospedale per accogliere i pazienti sintomatici da coronavirus.
I sanitari sotto cura
Fra i ricoverati, purtroppo, c’è anche qualcuno di loro: un primario dell’Asst in terapia intensiva, altri colleghi in degenza e poi una serie di sanitari risultati positivi al tampone e in quarantena. C’è persino chi si è contagiato, ha fatto la pausa prevista con sintomi leggeri e poi è tornato al lavoro. Se ne contano almeno 8 di dipendenti con l’infiammazione polmonare, ma la paura riguarda ora tutti gli altri, che vanno avanti e non possono neppure fare le verifiche sulle loro condizioni, se non la misurazione della temperatura che ferma chi ha la febbre prima di inizio turno.
«Ci stiamo ammalando»
Trovare chi ne parli è difficile. Ma, con garanzia di anonimato, lo fanno in tanti. E raccontano tutti la stessa storia: «Ci stiamo ammalando, forse lo siamo già, ma non abbiamo la possibilità di saperlo», dice uno dei medici interpellati. «Se ci facessero il tampone, l’organico verrebbe decimato, ma così diventiamo noi la bomba a orologeria nelle nostre famiglie e sui pazienti». Qualcuno racconta di un collega la cui moglie è positiva al virus, ma su di lui non sono stati compiuti approfondimenti, perché per adesso sta bene. Quindi continua a lavorare ed è, come molti altri, potenziale trasmettitore dell’infezione.
Dentro l’azienda le notizie girano incontrollate, senza comunicazioni. Come quando arrivò da Borsano il primo paziente - un mese fa - e la notizia che il covid-19 fosse in città arrivò per ultimi proprio agli operatori che non erano di turno in quei momenti.
Figli trasferiti altrove
Medici e infermieri che stanno sul fronte sanno cosa rischiano. «E sappiamo anche - spiega una dottoressa - che la Lombardia ha disposto una linea di approccio perdente rispetto all’epidemia. Si rincorre il problema quando ormai è esploso». Di certo molti professionisti hanno messo al riparo i loro cari. Qualcuno si è trasferito in un’altra casa, altri hanno mandato i figli a vivere con i parenti, per tutelarli. Hanno paura quelli che stanno in prima linea, ne hanno tanta anche quelli rimasti nei reparti, che spesso sono i più anziani e a cui la disponibilità a partecipare al progetto covid è stata rifiutata perché le statistiche li metterebbero più a rischio dei giovani. Intanto in ospedale aumentano gli spazi covid.
Gli operai hanno costruito pareti di cartongesso per cinturare l’emergenza. Non c’erano abbastanza porte per separare gli ambienti, così sono saliti nei reparti e ne hanno staccate alcune tagliafuoco per metterle dove serve.
Caccia alle mascherine
Questo succede fra chi si sta consumando in ore infinite, con mascherine e camici che scarseggiano sempre. Spesso chi finisce il turno torna a casa e, prima di riposare, attiva sulle chat gli amici per cercare di procurarle, in ogni modo. In questi giorni concitati c’è un mondo sotterraneo di fornitori dalle credenziali spesso non verificabili che offrono strumenti di protezione che non si capisce bene se siano quelli adeguati finché non li si tiene fra le mani. Un mercanteggiare strano e disorientante, in attesa di forniture ufficiali che arrivano con il contagocce. «È un sommerso in cui vale tutto, nel quale spesso viene chiesto di pagare in contanti, tanto che un’azienda o un ente pubblico non potrebbero mai fare un acquisto così», racconta un altro dottore, con una risata amara. Così si delega alle associazioni o ai semplici amici, pur di proteggersi e proteggere.
C’è chi fa una previsione: «La generosità è tanta, l’Asst sta facendo molte cose, ma la verità è che senza tamponi su noi operatori si permette a molti di contrarre il contagio. Qualcuno finirà ricoverato, molti altri lo porteranno in giro. Infatti nessuno qui si aspetta che la diffusione rallenterà velocemente».
A Busto Arsizio, l’8 marzo c’era stata la prima vittima del Coronavirus.
© Riproduzione Riservata