PASSATO E PRESENTE
Il dialetto in via d’estinzione? Parliamone
Per alcuni è ormai una lingua morta, ma senza di essa si perdono radici, storia e tradizioni dei luoghi

Quando qualcosa non funzionava (un rapporto tra persone, un’automobile, un attrezzo), i vecchi varesini usavano dire che «la và come Rosina e il so omm», cioè «va come Rosina e il suo uomo» e si suppone una coppia con qualche vicissitudine coniugale. Una metafora dialettale che non si sente più, in via di estinzione come la lingua (locale) con cui era pronunciata. Ieri, mercoledì 17 gennaio, è stata la giornata nazionale del dialetto. Più che una ricorrenza, sembra oggi una commemorazione.
I fatalisti (e un po’ anche i fan del politically correct) osservano che il dialetto è una lingua morta, almeno nel settentrione del Paese. La semantica dovrebbe quindi prendere atto del trapasso. Soprattutto ora che imperversano gli slang giovanili: ghostare, boomer, scrollare. Ma c’è qualcosa di moderno e futuro che si rischia di perdere insieme al vernacolo. Le radici. Su queste poggiano la storia, le tradizioni, la conoscenza dei luoghi.
«Non c’è futuro senza consapevolezza del passato» è la retorica delle grandi manifestazioni nazionali. Già. Il dialetto è intriso di vita (che fu) e di consuetudini legate allo specifico territorio. Al Sud, per esempio, sono ricorrenti il mare e i pesci. «Il polpo deve stare nell’acqua sua» dicono in Puglia alludendo a stati d’animo personali sui quali è bene non entrare. Qui, dove dominano le montagne e le temperature sono (erano?) più fredde, è la neve che ha ispirato tanti detti locali. Uno, forse il meno soave, recita che «spalà la nef e mazà la gente l’è na gran perdita de temp» (tradotto: spalare la neve e ammazzare la gente è una grande perdita di tempo). La saggezza popolare invitava così a lasciare andare le questioni che si risolvono da sole. Come la neve che prima o poi si scioglie e la vita di ciascun uomo destinata a finire.
La valorizzazione di un territorio passa anche dalle tradizioni e in queste un ruolo da protagonista spetta alla lingua locale. Per carità, nessuno si immagina che d’incanto i dialoghi al bar, le conversazioni tra amici, le sfuriate in strada, avvengano col parlato d’un tempo. Sarebbe anacronistico. E impossibile: chi lo conosce? Le nuove generazioni certamente non lo comprendono. Ma anche le generazioni di mezzo annaspano e quindi non sanno tramandare nemmeno l’abc (nel caso specifico, qui, del dialetto bosino). Questo lasciar andare è però rischioso. Dalla lingua è un attimo passare ai luoghi. Ci troviamo così - non a caso - con ragazzi che. grazie anche a video e social, sanno tutto di posti lontani (magari perché li hanno visti in post di influencer) ma non hanno idea di quanti e quali siano i laghi della provincia di Varese.
Altra questione che va detta: ci sono detrattori del dialetto perché vedono nel bosino o nel milanese un cavallo di battaglia politico da parte di chi insegue l’autonomia. Il dialetto ha una bandiera (quella di un territorio) ma è senza tessera di partito. Altra obiezione che si sente argomentare: il dialetto è discriminatorio. In una regione che accoglie e integra provenienze diverse, il dialetto sarebbe insomma un freno. Sciocchezze. Non siamo all’esame di lingua e neppure alle prove di dizione. Apprendere e apprezzare modi di dire tradotti dal dialetto non può che arricchire. allargare orizzonti geografici e storici.
La Pro loco di Ranco ha pubblicato ieri un divertente video (si può vedere su Prealpina.it) che rimette il dialetto al centro della vita del paese. Irriducibili. Difendere il dialetto dall’estinzione può essere allora una sfida utile anche, soprattutto per le istituzioni. Coraggio, può funzionare. Non come Rosina e ‘l so omm.
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