IL CASO
Botte e minacce alla mamma. Ma lei lo perdona
Quarantenne di Busto Arsizio era stato condannato per maltrattamenti. E dal conto della donna sparirono anche 40mila euro. Ora la donna ha ritirato la querela
Le botte, gli insulti, i soldi “spariti”. L’esasperazione e la querela. Ora il passo indietro. E’ la storia drammatica e tormentata di una madre che denunciò il figlio per maltrattamenti. Proprio a causa della sua denuncia-querela, un quarantenne originario di Busto Arsizio finì in carcere. Tuttavia, dopo la sentenza di primo grado e a pochi giorni di distanza dal processo d’appello, l’anziano genitore ha messo da parte ogni risentimento per le botte, le minacce di morte, i soprusi e le vessazioni subite dal figlio (e non ultimo il fatto che le aveva anche fatto sparire dal conto quasi 40mila euro), e ha scelto di perdonarlo. Cuore di mamma.
IL CAMBIAMENTO DEL FIGLIO
Lo ha potuto fare anche perché il Tribunale di Busto Arsizio aveva sì condannato a cinque mesi e mezzo di reclusione l’uomo, ma aveva al contempo derubricato con la propria sentenza l’ipotesi originaria di maltrattamenti in famiglia (procedibile d’ufficio) in quella di lesioni e minacce (entrambi procedibili a querela di parte). Se nel processo di primo grado non c’era stato verso di farle cambiare idea, la donna, rendendosi conto che il figlio si è nel frattempo affrancato dalla deriva distruttiva che aveva imboccato, complice un consumo fuori controllo di sostanze stupefacenti (in primis crack e cocaina), si è decisa al grande passo e ha dato mandato di cancellare la querela. Da qui la sentenza di non luogo a procedere per il venir meno della denuncia da parte dei giudici della terza Corte d’Appello di Milano. Una soluzione sollecitata dal difensore dell’imputato, l’avvocato Davide Gornati, e fatta propria anche dal sostituto procuratore generale Olimpia Bossi.
IL RICORSO DEL PM
Ha finito così per essere stoppato sul nascere il ricorso in appello proposto dal pm di Busto Arsizio Francesco Belvisi che, al termine della propria requisitoria nel processo di primo grado, aveva sollecitato una condanna a tre anni e quattro mesi. Nel ricorso del pm contro l’assoluzione dall’accusa di maltrattamenti si sosteneva che «gli abituali agiti vessatori e di sopraffazione fisica dall’imputato, che avevano ridotto la madre in uno stato di perdurante soggezione», integravano a tutti gli effetti l’ipotesi di maltrattamenti in famiglia. Una conclusione contraddetta dal giudice di Busto, secondo il quale la donna (che non si è costituita parte civile) sarebbe stata «vittima di singole, autonome condotte di reato, ma non già di uno stato di abituale prevaricazione e sopruso ad opera del figlio».
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