PRESIDENTE DI NEON
Mattei, l’aereo gemello e l’operazione verità
Il velivolo donato a Volandia da Lupo Rattazzi è uguale a quello che precipitò a Bascapè. I complotti, la politica, la famiglia

Com’è morto Enrico Mattei? Risposta numero 1: incidente aereo. Risposta numero 2: attentato. Di certo, e fin qui non si discute, il potentissimo presidente dell’Eni che paragonava i partiti politici a un taxi («Li utilizzo, pago il dovuto e scendo») la sera del 27 ottobre 1962 precipitò nelle campagne pavesi di Bascapè su un Morane-Saulnier MS 760 Paris I-SNAP pilotato da Irnerio Bertuzzi con cui, assieme al giornalista americano William McHalee, stava rientrando a Milano da Catania. Allora, com’è morto? Non serve un mago dei sondaggi: la risposta più ricorrente nella pubblica opinione è la 2. Attentato. Bomba a bordo. Mattei fatto fuori dalle “Sette sorelle” del petrolio, perché la sua politica energetica dava fastidio.
Attenti però a non citare questa vox populi a Lupo Rattazzi, presidente della compagnia aerea Neos di Somma Lombardo e pilota esperto, perché lo fa infuriare. Al punto da aver deciso di donare a Volandia l’aereo gemello di quello precipitato sessantadue anni fa e che l’Eni vendette subito dopo la tragedia, affinché, ammonisce, «diventi l’emblema di una delle più grandi bugie diffuse in Italia: la tesi secondo cui Mattei morì vittima di una bomba piazzata sull’aereo e non di un incidente aereo».
La cerimonia di consegna del velivolo al museo è prevista il 17 maggio e, visto l’elenco dei relatori, sarà una gigantesca “Operazione verità”.
Presidente Rattazzi, perché sta conducendo questa crociata?
«Perché l’Italia ha una propensione verso il complottismo, che non solo è una malattia mentale ma è anche altamente diseducativo perché diffonde diffidenza verso lo Stato. L’ho sentito come dovere civico. Da sempre studio gli incidenti aerei e qui qualcosa non mi convinceva: più analizzavo la documentazione e meno mi quadrava la storia dell’attentato. L’aspetto tragico è che un magistrato si sia sentito in dovere di dare corpo alle voci che si sono susseguite fin dalla morte di Mattei, fabbricando totalmente le prove e cercando maldestramente di screditare le prime due inchieste altamente attendibili».
Nel 1994 Vincenzo Calia riaprì le indagini per dimostrare che il Morane-Saulnier fosse precipitato a causa di una bomba azionata dal meccanismo di apertura del carrello di atterraggio: ipotesi verosimile, visti i tanti piedi pestati all’epoca dal presidente dell’Eni...
«Peccato che l’aereo di Enrico Mattei la mattina di quel 27 ottobre aveva fatto due voli di andata e ritorno verso Gela, con due estrazioni di carrello, e che prima di ripartire per il volo fatale verso Milano fosse rimasto in piena vista del comandante Bertuzzi e degli addetti aeroportuali, tutti militari, e non poteva essere sabotato in quel lasso di tempo. Allora il dottor Calia cosa s’inventa? Che a Catania quel giorno c’era anche l’aereo gemello del Morane-Saulnier e che in realtà era questo ad aver volato la mattina da e per Gela mentre l’altro, quello poi precipitato, veniva sabotato in hangar: ben sei documenti ufficiali, fra cui due da me recuperati, smentiscono questa ricostruzione».
Cosa risponde a chi l’accusa di avere voluto, con le sue ricerche, sminuire i meriti di Mattei?
«È un’accusa a dir poco ridicola. La figura di Enrico Mattei non ha bisogno di una morte per sabotaggio per riconoscerne gli enormi meriti. Gli incidenti aerei accadono, a prescindere dalla notorietà delle persone a bordo: i cimiteri sono pieni di piloti, anche con migliaia di ore di volo, che a un certo punto hanno una defaillancefatale. Come in questo caso: all’arrivo sul radiofaro di Milano Linate il Morane-Saulnier era troppo alto, 6.000 piedi anziché 2.000, perciò per smaltire la quota il pilota Bertuzzi fu costretto a invertire la rotta e poi a virare di nuovo in direzione di Linate: quest’ultima virata, condotta a bassissima quota, al buio, in condizioni meteorologiche avverse e in un probabile stato di notevole stanchezza, sarà fatale. Persino i periti incaricati dal dottor Calia si divisero sulla tesi della bomba a bordo: nessuno di loro trovò mai tracce di esplosivo da nessuna parte e quelli che si rifiutarono di avvallarla vennero ignorati».
È vero che John Travolta è stato uno dei proprietari dell’aereo che donerà a Volandia il 17 maggio?
«Sì, c’è anche un video dell’attore mentre lo sta pilotando, che mostrerò. Tenga conto che questo aereo ha un’importanza storica notevolissima: è il primo jet civile immatricolato in Italia, prima di quelli di Alitalia».
Lei ha investito nell’aviazione civile quando molti lo ritenevano un settore morto: ostinazione,
incoscienza o visione?
«Mi sono trovato in questo ambiente per passione: fin dai 5 anni se mi davano un foglio di carta io ci disegnavo sopra un aereo. Da grande, a 35 anni, devo ammettere con una certa imprudenza, ho deciso di investire. Dico imprudenza perché questo settore ha una pessima fama a livello di ritorni finanziari, però io ho avuto la grande fortuna di avere colleghi come Beppe Gentile, Antonello Isabella e Carlo Stradiotti e insieme abbiamo realizzato imprese straordinarie, dall’Air Europe a Neos. Il motivo della donazione a Volandia è proprio perché devo tanto a questo territorio, verso il quale nutro grande affetto e riconoscenza: mi ha accolto come presidente di una compagnia aerea quasi ininterrottamente dal 1988. Ho visto Malpensa crescere, da quando c’era solo il Terminal 2».
Cosa risponde a chi considera Neos una compagnia di nicchia?
«È a dir poco riduttivo: siamo la seconda compagnia aerea italiana per dimensione, con un raggio d’azione molto ampio e ha battuto svariati record di durata. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una moria impressionante di compagnie e invece Neos è viva e vegeta, ha più di mille dipendenti e fa utili. Siamo nati nel 2002 con un aereo: oggi sono 16».
Lo avrebbe mai immaginato?
«Sinceramente no. Siamo cresciuti con il tour operator Alpitour, che a sua volta è cresciuto, una sorta di feedback loop in cui l’uno ha fatto crescere l’altro: questo modello di integrazione verticale funziona molto bene ed è anche unico in Europa».
Se li ricorda i tempi del Covid?
«Pensavo di avere visto tutto ma mi sbagliavo. È stato inimmaginabile. Le perdite del gruppo sono state veramente drammatiche, ma devo dire di avere avuto un ottimo supporto dalle istituzioni. Noi ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo collaborato con il Ministero degli Esteri facendo dei voli di soccorso, così anche noi abbiamo dato il nostro contributo».
Susanna Agnelli, sua madre. Le ha mai pesato essere “figlio di”?
«Un obiettivo costante della mia vita è sempre stato quello di fare in modo di non essere individuato come “figlio di”. Impresa difficilissima: questo è un Paese dove ancora, a 72 anni, ti dicono che sei un rampollo. Ma con le mie attività nel trasporto aereo, con i successi di Air Europe e di Neos, penso di essermi meritato un appellativo migliore. Credo di essermi affermato con le mie forze. Però lo capisco, quando si nasce in una certa famiglia ce l’hai stampato in fronte l’appellativo di rampollo...».
Lei è noto per le sue posizioni liberali e anticonformiste: c’è ancora uno spazio di centro in Italia o siamo stretti fra due estremi?
«Io penso ci sia, solo che nell’ultimo periodo penso non si sia espresso bene. Guardo non molto interesse all’esperimento di Luigi Marattin: il centro fa fatica, però non bisogna mai smettere di sperare che ci sia una terza alternativa in questo Paese».
Mandi un sms a Giorgia Meloni e uno a Elly Schlein.
«A Meloni, di cui ho grande rispetto per come si è comportata finora, scriverei: se deve scegliere fra l’Europa e Trump non abbia mai alcun dubbio. Invece a Schlein consiglierei di fare molti più sforzi per avere un portamento istituzionale, altrimenti il Partito democratico non conquisterà mai un elettorato moderato».
Tentato di buttarsi in politica?
«A livello politico locale sono stato consigliere comunale a Monte Argentario. A livello politico nazionale faccio molta fatica a individuare uno spazio giusto. Ma mai dire mai».
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