CONTROPASSATO PROSSIMO
L’altalena di Gorizia, le foibe e la pace

Nell’estate del 1947 un giovane soldato americano scendeva per la collina di Castagnavizza, a due passi da Gorizia.
Tra le braccia stringeva un grande bidone di gesso ed era intento a tracciare una linea. Canterellava allegro, saltellando da una parte all’altra della riga, e a turno gridava «Viva l’Italia!» e, dopo il balzello, «Viva Tito!». Forse non se ne rendeva neanche conto, ma con quel semplice bidone stava facendo la Storia.
Quella striscia bianca era infatti il nuovo confine tra l’Italia e la Jugoslavia, deciso dagli Alleati alla Conferenza di Parigi qualche mese prima, il 10 febbraio.
La storia è nota. Mentre il Terzo Reich e la Repubblica Sociale di Mussolini si disfacevano, gli jugoslavi erano riusciti a sfondare gran parte del confine orientale e a entrare anche a Trieste. Certo, era stata l’Italia nell’aprile del 1941 a invadere la Jugoslavia e ora, quattro anni dopo e a guerra quasi terminata, il maresciallo Tito esigeva il possesso dei territori che era riuscito a occupare.
Così andavano le guerre, nel Novecento: l’esercito che per primo conquistava un territorio nemico, avrebbe poi potuto rivendicarne la sovranità alla Conferenza di Pace. Ma, per riuscirci, Tito doveva innanzi tutto pacificare la zona sotto la bandiera della rivoluzione: nessuno avrebbe dovuto opporsi pubblicamente all’annessione.
Presi allora tutti i luoghi pubblici – caserme, cinema, municipi – l’epurazione della comunità italiana era stata rapidissima: intimidazioni, privazioni, arresti in un clima di paura e di terrore.
E soprattutto le foibe: centinaia, migliaia di italiani uccisi e scaraventati nelle voragini del Carso o deportati nei terribili campi di lavoro all’interno della Jugoslavia.
Insomma, l’Italia aveva perso la guerra e ora subiva il Trattato di Pace, un vero e proprio diktat senza alcuna possibilità di modifica. Il grande filosofo Benedetto Croce accusò il governo di Alcide De Gasperi di «cupidigia di servilismo»: ma in realtà non vi era alternativa per un paese distrutto e senza possibilità di sostentarsi autonomamente.
Terribile, allora, per gli ex-nemici, il prezzo da pagare. Un vulnus, la reale e lancinante perdita di una parte di territorio nazionale: quasi tutta la Venezia Giulia, l’Istria, Zara, Pola, Fiume e il Territorio Libero di Trieste. Quella zona, peraltro, costata la morte di centinaia di migliaia di giovani ragazzi durante la Prima guerra mondiale, che ora viveva anche l’angosciante esodo di almeno 250 mila persone. Abbandonavano le loro case, perdevano tutto perché temevano l’assimilazione forzata e volevano restare italiani.
Questo, dunque, il clima quel giorno, mentre lo spensierato soldato col bidone si affrettava a svolgere diligente il compito assegnatogli: il giorno dopo il suo reparto avrebbe lasciato per sempre l’Italia, e se ne sarebbe tornato a casa, nel Texas.
A un certo punto, però, si trovò davanti a un frutteto e, sempre col suo gesso, sembrò assegnare alla Jugoslavia un vecchio e grosso albero di pere.
In quel momento dalla cucina della casa colonica sbucò veemente una signora anziana, corpulenta e scarmigliata. La donna, furibonda, raggiunse il ragazzone e lo minacciò col suo mattarello.
L’albero di pere era suo, urlò. Era lì da trecento anni, e avrebbe spaccato la testa a chiunque avesse provato a portarglielo via, gridò iraconda agitando il matterello.
Il soldato arrossì, stupefatto e imbarazzato. Poi fece un lungo sospiro, riprese il bidone in mano e sotto gli occhi severi della anziana fece descrivere al confine italiano una piccola curva, proprio intorno all’albero. Il pero era salvo e la signora, pur visibilmente irritata, parve calmarsi. Su quell’albero c’era un lungo ramo e con due corde era stata montata una altalena. Così, dondolando, negli anni successivi i bambini passarono dall’Italia alla Jugoslavia migliaia di volte al giorno, superando quel confine artificiale – che poi, a ben pensarci, era addirittura la “cortina di ferro” – senza alcun passaporto.
© Riproduzione Riservata