ALTOMILANESE
I guai del teleriscaldamento
Non solo tubi rotti, anche i costi di gestione sono lievitati alle stelle

Il tubo che lunedì pomeriggio, 24 gennaio, si è rotto sotto via Cavour e ha lasciato al freddo mezza città, tutto sommato è il meno. In fondo in quel caso è bastato scavare e riparare il guasto, prima di mezzanotte l’acqua calda era già tornata nelle case di tutti.
I problemi sono altri, e riguardano tanto l’obsolescenza generale dell’impianto quanto i costi di gestione che da un anno all’altro sono schizzati alle stelle. Anche senza contare l’aumento del gas, che alla fine peserà direttamente sulle tasche delle famiglie, per i manager di Amga è arrivato il momento di fare seri ragionamenti sul futuro dell’impianto di teleriscaldamento che oggi serve un totale di 6.900 famiglie e 21 scuole tra i Comuni di Legnano e Castellanza.
Ragionamenti che sono già in corso da qualche mese, e che entro il prossimo aprile dovranno portare «a soluzioni importanti». Quali, per il momento è ancora presto per dirlo.
Il peccato originale
La centrale di teleriscaldamento di Amga è stata inaugurata nel 2002 in via per Busto, originariamente l’impianto era stato concepito con una filosofia così “green” da risultare attualissima anche oggi. Il progetto prevedeva di raccogliere gli scarti delle potature, ramaglie e falciature di una vasta zona, per bruciarle poi in un impianto che avrebbe generato calore per scaldare acqua che attraverso tubature coibentate sarebbe poi stata pompata in tutta la città, rendendo quindi inutili tanto le vecchie caldaie a gasolio dei condomini quanto le più recenti caldaiette a metano dei riscaldamenti autonomi.
Il peccato originale fu però la scelta del bruciatore, che nonostante le assicurazioni del fornitore non si rivelò in grado di generare calore dalle biomasse. Mentre la posa delle tubazioni continuava, l’impianto fu quindi convertito in corsa per bruciare gas metano. Scelta che al tempo era comunque economicamente sostenibile, ma che oggi sta mostrando almeno due limiti importanti. Il primo è con il rincaro del prezzo del metano le bollette diventano più salate anche per chi è allacciato al teleriscaldamento, rendendo quindi meno conveniente la scelta di abbandonare l’autonomo; il secondo è che un’azienda che gestisce un impianto che brucia biomassa non è obbligata a comperare i “certificati neri” per compensare l’inquinamento prodotto, cosa che invece deve fare chi brucia una materia prima come il metano.
Nel 2002 quest’ultimo problema non si poneva neanche, perché i certificati neri inventati nell’ambito del protocollo di Kyoto in Europa non erano ancora richiesti. Negli ultimi due anni il costo di questi certificati è però quasi quadruplicato, e adesso Amga deve acquistarli a peso d’oro mettendo in conto una spesa nell’ordine dei milioni.
Da parte sua, nonostante il recente ripotenziamento della centrale (2020) e l’allungamento della rete sotto via Barbara Melzi (2021), l’impianto resta vecchio e pieno di magagne, come appunto dimostrato dall’incidente capitato lunedì in via Cavour.
Il bollo dell’Alfasud
Insomma: per attualizzare una battuta dell’ex presidente Nicola Guliano che in Amga è ormai diventata celebre, oggi il teleriscaldamento è un’Alfasud per cui la proprietaria (cioè la partecipata) paga un bollo di milioni di euro. Le soluzioni? I manager sono al lavoro per studiare diverse ipotesi da sottoporre ai sindaci dei Comuni soci, impossibile strappare anticipazioni. Ma dando per scontato che l’impianto non possa essere dismesso senza lasciare al freddo poco meno di 7mila famiglie, le ipotesi obbligate restano due: o si cambia la centrale, oppure si immagina un modo per collegare la rete all’ex Accam di Borsano, dove da metà marzo Neutalia otterrà calore bruciando i rifiuti. In entrambi i casi servono investimenti, che difficilmente potranno essere sostenuti dal solo allargamento della platea degli utenti.
Per salvare il teleriscaldamento Amga ha bisogno di un partner, di che tipo lo si capirà nei prossimi mesi.
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