LA TESTIMONIANZA
Così ho sconfitto la brutta bestia
Tra notti insonni e angeli custodi il racconto del varesino salvato dal cambio di terapia al Policlinico di Bergamo
Maledetto, subdolo, brutta bestiaccia, tutto si può dire del Covid 19. Questa vuole essere una testimonianza di speranza di chi da più di un mese vive tra la propria abitazione e l’ospedale senza uscire e respirare l’aria esterna. E, soprattutto, il racconto della mia esperienza personale intende essere un messaggio rivolto alle tante persone che lottano affinché non si arrendano e non mollino mai.
Certo, sapere di avere contratto il virus alla fine di ottobre per via familiare, nonostante essere stati sempre attenti e aver seguito scrupolosamente tutte le indicazioni e le regole governative, è stato un colpo molto duro da assorbire. All’inizio sono stati giorni difficili di sofferenza e paura, tra la febbre quasi sempre oltre i 39 gradi e la speranza di un sollievo temporaneo, per poi essere ributtati nello sconforto dalla consapevolezza che le cure domiciliari non sortivano effetti. Ore e giornate difficili durante le quali si è chiamati a decisioni che non vorresti mai prendere, come quella di contattare il tuo medico di base e concordare un ricovero ospedaliero. Che dopo una triste parentesi al pronto soccorso di Busto Arsizio, trascorsa seduto per ventiquattro ore su una sedia senza cibo e senza un letto, prima di tornare inutilmente a casa, era difficile da accettare. Perché l’ossigeno continuava a mancare.
Il 5 novembre inizia così il mio viaggio al Policlinico San Pietro a pochi chilometri della meravigliosa Bergamo, simbolo della prima ondata del Coronavirus tra dolori e sofferenze e oggi della ripartenza, e a dieci minuti da Zingonia, luogo dove si allena da sempre l’Atalanta dei miracoli. Lontano oltre cento chilometri dal mio mondo, dai miei genitori, dagli affetti, dagli amici, dal lavoro.
Qui c’è stata la svolta. Con il fondamentale cambio di cura antibiotica rispetto alla terapia domiciliare. Che era stata infruttuosa.
A Bergamo sono stati dodici giorni in cui ho potuto conoscere davvero “gli angeli e gli eroi delle corsie”, medici e infermieri pronti sempre a sollevare lo spirito dei degenti, di quelli apparentemente più fortunati come me e di quelli più sfortunati di ogni età con l’ossigeno, e sempre pronti a parlare, scherzare, fare una battuta. Occasione per conoscere chi vive la tua stessa malattia e proviene da Arezzo o dalla provincia di Varese, con la possibilità di leggere le riviste e non perdere mai contatto con il mio mondo grazie alla Prealpina (fatta arrivare da un vicino di letto) e alle notizie del territorio. Con l’opportunità di parlare con i compagni di camera, condividere le difficoltà, supportarli nei momenti difficili in giornate dove i ritmi erano cadenzati da notti quasi sempre insonni. E poi: alle 5 di mattina misurazione di febbre, ossigeno e pressione tutti i giorni, le campanelle suonate in piena notte con richiamo agli infermieri da parte di chi aveva bisogno, i volti di uomini e donne di ogni età speranzosi di poter guarire e tornare al più presto a casa, la colazione, l’arrivo del medico, per me una dottoressa di origine nordafricana che è stata un vero angelo custode per la sua delicatezza e competenza, i pranzi e le cene da ospedale, ma soprattutto le telefonate ai miei più volte al giorno per supportarsi e darsi forza anche da lontano, ai colleghi e agli amici che mi sono stati vicino, mi hanno dedicato tempo e mi hanno fatto ritrovare la bellezza del sorriso.
Da dieci giorni sono a casa speranzoso di poter ritrovare la vita di prima. Sono anche tornato a scrivere per la Prealpina. Ma non dimenticherò mai quanto ho passato, cosciente di poter guardare con fiducia al futuro.
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