REGISTRAZIONI IMPERFETTE
A «bassa fedeltà»

Una moda da social network. O forse un tassello evolutivo nella storia dell’ambient music. Comunque la si veda, la musica lo-fi è diventata da un paio d’anni a questa parte un elemento sonoro pervasivo, in cui è sempre più frequente imbattersi. Basta un video su TikTok o un reel su Instagram per fare la scoperta di suoni home made dalle atmosfere agrodolci, perennemente sospese tra verve malinconica e vibrazioni propositive. Sottofondi che, a loro modo, parlano di nuove generazioni e fruizioni.
Lo-fi è un’abbreviazione dell’espressione low-fidelity, vale a dire bassa fedeltà. Con questa etichetta sono definite tutte le produzioni musicali che scelgono volutamente una registrazione con strumenti di bassa qualità, quasi sempre attraverso modalità fai-da-te. L’estetica dei compositori lo-fi esige la noncuranza per le imperfezioni, che anzi sono il più delle volte sottolineate da deformazioni sonore e varie aggiunte artificiali di fruscii di nastro, vinili scratchati, puntine di giradischi. Realizzati rigorosamente in digitale, i brani mettono insieme sonorità hip hop, jazz, chill e house, anche se non mancano melodie di pianoforte o chitarra preesistenti. Tanto le composizioni originali quanto le numerose cover sono spesso costruite su beat rarefatti e preset percussivi a volte assemblati alla bene e meglio. Perché l’importante non è la cura del dettaglio, ma suggerire risonanze nostalgiche e meditative tramite alcuni accorgimenti indispensabili: sample vagamente jazzati, riutilizzo di vecchie tracce e soprattutto l’eliminazione delle frequenze basse, particolare che rende il suono più smorzato e artigianale.
Grazie a queste caratteristiche, la musica lo-fi ha già trovato un campo d’azione specifico. Oltre all’accompagnamento dei video sui social, è utilizzata da molti per momenti di relax o studio. Su YouTube, piattaforma che l’ha accolta ancor prima di Facebook, Spotify o SoundCloud, ci sono canali che trasmettono dal vivo playlist interminabili, vere e proprie web radio su cui sintonizzarsi a qualsiasi ora del giorno e della notte. A confronto, le 12 ore di Empty Words di John Cage o le 20 di Vexations di Satie sono quasi spot pubblicitari. Il video è spesso minimale, composto da pochi fotogrammi tratti dagli anime giapponesi che tanto piacciono ai fan della lo-fi. Un paio di cuffie e l’ascoltatore si lascia cullare da quelle note consciamente sporche, eppure efficacissime. Merito anche del fatto che spesso le musiche sono eseguite a 70/90 battiti al minuto, gli stessi della frequenza cardiaca. Secondo alcuni, ciò favorisce il rilassamento e la creatività.
La lo-fi sembra perciò imparentata la muzak, la musica d’ambiente che risuona nei luoghi pubblici diventando parte del soundscape urbano. Ma forse anche con l’ASMR, la stimolazione uditiva in cui tanti trovano sollievo dopo le giornate più intense. Di sicuro l’intento è quello di una ritrovata umanità della musica, lontana dalle raffinatezze della sovrapproduzione. Se i sociologi possono intravedervi una protesta contro la perfezione a tutti costi, un tratto più verificabile è una certa nostalgia vintage, espressa dalla chiara ispirazione al jazz rap e alle incisioni degli anni Novanta. Per alcuni gli artisti lo-fi, provenienti in egual misura dai quattro angoli del globo, condividono con quei tempi la disillusione verso la contemporaneità. Dietro a nickname talvolta improbabili, riconducibili in molti casi al mondo delle animazioni giapponesi, si celerebbe così una riflessione più profonda. Ormai ogni tipo di musica, anche di qualità, può essere fatto dalla propria cameretta. Pur conoscendo questi mezzi, gli artisti lo-fi continuano però a preferire la semplicità alla sofisticatezza. Un motivo ci sarà, dopotutto.
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