Le maschere? Le usiamo anche sui social

C’è chi non vede l’ora di indossare i vestiti di un super eroe e personaggi fantastici. Chi di un personaggio famoso per sentirsi vip per qualche ora. La parola d’ordine è mascherarsi, travestirsi sognare e recitare una parte. Essere diversi. Basta poco, anzi pochissimo. Con una maschera che nasconde il nostro volto, tutto cambia. Lo raccontano Patrizia Foglia e Patrizia Albé nel loro volume Maschere edito da Nomos Edizioni tornano a parlare di un’arte che da cinque secoli continua ad affascinare, almeno una volta l’anno. Partono dalla Commedia dell’Arte per raccontare personaggi e costumi nella grafica tra Seicento e Novecento. Un viaggio nel mondo allo rovescia svelato da una delle autrici, Patrizia Foglia.
Patrizia Foglia, quanto ci mascheriamo oggi?
«Oggi più che mai sia facile porre una “maschera” sul nostro volto. Nel volume è stata più volta utilizzata l’espressione “identità nascoste” legata alla raffigurazione dei tipi fissi e a tutti gli attori che sulle scene li impersonavano, assumendo i caratteri della maschera stessa, del personaggio quasi giungendo a una sorta di simbiosi con quest’ultimo. Penso che si possa associare questa espressione anche ai nostri tempi: come diceva Pirandello, ognuno di noi assume una maschera a seconda delle diverse circostanze, molteplici identità sotto le quali si cela quella personale. Grazie ai social ad esempio i nostri “profili” possono diventare delle vere e proprie maschere, nascondendo il nostro vero volto. Questa ambivalenza dell’essere e dell’apparire fa parte del nostro vissuto quotidiano, discostandosi totalmente dal concetto di travestimento scenico o di festa di piazza. La paura di essere meno interessanti agli occhi degli altri ci porta a modificare le nostre identità e a celare anche i nostri volti dietro immagini inventate o avatar».
Tradizione italiana, ci si divide tra chi ama e chi odia il carnevale. Come possiamo iniziare a fare amare e apprezzare le maschere?
«Credo che tutto debba essere ricondotto allo studio e alla conoscenza della “maschera” quale elemento che ha una duplice valenza, teatrale e culturale; se limitiamo il Carnevale alla semplice vestizione con abiti altrui, siano essi quelli delle maschere tradizionali, ahimè sempre più neglette, o quelli più in voga dei supereroi, abbiamo perso il senso vero di questo fenomeno, che travalica i secoli ed è proprio di diverse aree geografiche nel mondo. Sarebbe auspicabile che alle maschere della tradizione italiana, al ruolo che tanti attori e scrittori hanno svolto, facendo circolare testi teatrali e compagnie in tutta Europa sino ad est, fosse riservata più attenzione nelle scuole. Nel volume c’è un capitolo tutto dedicato ai giochi legati all’iconografia delle maschere, come sarebbe bello se venissero riproposti oggi».
Quando abbiamo iniziato a considerare le maschere una questione da bambini?
«La nostra ricerca si è soffermata sul concetto di Carnevale inteso come ribaltamento dei ruoli canonizzati, Carnevale quale mondo alla rovescia. Ma il Carnevale così inteso ha man mano perso la sua identità culturale, trasformandosi in un momento ludico, solo apparentemente legato alla tradizione e alla storia. Ecco allora che diventa qualcosa legato solo al gioco del travestimento e discostandosi molto dal suo senso più profondo. Va da sé che è rimasto solo qualcosa di esteriore e i bambini allora diventano i protagonisti di questo gioco nel quale non si trovano nemmeno più le maschere tradizionali, sostituite da altre ben più note all’immaginario collettivo di bimbi e ragazzi. Non so dire quando ciò è avvenuto ma un ruolo fondamentale lo hanno svolto la televisione, il cinema e i videogiochi».
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