LE NOSTRE STORIE
Quando spararono in Prealpina per un “vaffa” del Capannelle
Un centralinista aveva rifiutato di farsi dettare un comunicato delle Formazioni Comuniste Combattenti. E sbottò: «Andate a lavorare»

Ho lavorato una vita in questo giornale che è uscito indenne dagli anni di piombo. Delle due l’una: o non davamo fastidio a nessuno, né ai rossi né ai neri, in egual misura protagonisti di turbolenze alle nostre latitudini oppure funzionava la regola del distacco operoso. Sapevamo che prima o poi sarebbe finita ‘a nuttata, che paragonata all’oggi è un breve black out, facevamo il nostro mestiere, qualcuno ci telefonava per delirare di lotta allo Stato imperialista delle multinazionali o di rivoluzione neofascista: lo stavamo ad ascoltare. E magari andavamo a prendere il “documento strategico” che questo o quell’ambasciatore dei NAR o di Prima Linea ci lasciava in una cabina telefonica.
Sì, perché Varese è stata palestra di entrambe le formazioni. Una cellula nera venne scoperta a Casciago con una “santabarbara” che doveva far saltare la diga di Creva e forse anche lo stadio Franco Ossola durante la partita Varese-Roma. E Prima Linea arruolava nel nostro territorio decine di ragazzi e ragazze, per lo più figli di papà, avviandoli sui sentieri della guerriglia. Uno, tanti anni dopo, mi spiegò il grande plagio di una generazione: «Avevo sedici anni, mi misero nelle mani due pistole che per fortuna non ho mai usato. Così mi ritrovai combattente».
Eppure il 28 dicembre del 1978 tre colpi di fucile a pallettoni forarono i vetri del portone d’ingresso della neutrale Prealpina. Avvertimento. Gesto intimidatorio. Vendetta. Che cosa avevamo fatto, probabilmente scritto, per finire nel mirino del terrorismo? Arrivarono i carabinieri e la Digos che in quell’epoca correvano appresso a bombe molotov scagliate contro caserme e auto di dirigenti di grandi aziende. Routine. Ma un giornale è un giornale e l’attenzione degli investigatori fu più profonda del solito. Si scoprì quasi subito la causa del “vile attentato”, come una certa retorica sindacale etichettava in quegli anni qualsiasi gesto di sapore rivoluzionario. Non ci avevano sparato per ragioni politiche: un nostro centralinista aveva mandato a quel paese il portavoce delle Formazioni combattenti comuniste. Volevano dettare un comunicato e lui che non stava dalla parte di nessuno, se dalla sua scomoda mansione svolta con diligenza, dopo un “vaffa” di liberazione, gli disse: «Andate a lavorare». Quelli non la presero bene: saltarono su un’auto, una Mini, si fermarono davanti alla nostra sede di via Tamagno e pam, pam, pam. Per fortuna nessuno si trovava nella traiettoria dei proiettili.
Chi era il Beppe Grillo ante litteram nemico dei perditempo? Era “il Giancarlo”, detto Capannelle per via della sua passione ippica: scapolo, maglione senza maniche, occhiali che al posto delle lenti avevano vetri spessi come il fondo di una bottiglia, tanto non ci vedeva, quando non era in servizio, stava incollato ai monitor di qualche agenzia di scommesse. Quella volta Capannelle la fece grossa. Ma i romani direbbero: quando ce vo ce vo.
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