IL DELITTO
"Sedici anni al patricida"
Il pm chiede la condanna di Cassanga. L'ultimo messaggio dell'angolano alla fidanzata: "Ti amo, ma ho ucciso mio papà"

"Ti amo, mi manchi, ho ucciso anche mio padre": mentre camminava rapido, lasciandosi alle spalle l’appartamento di via Pindemonte in cui aveva appena accoltellato a morte il papà, Joao Dungo Cassanga - angolano ventitreenne - prese il cellulare dalla tasca e inviò un messaggio alla fidanzata.
Poi, giunto in piazza Manzoni, chiamò la polizia e si costituì. Nella mattina di giovedì 10 luglio il ragazzo è comparso davanti al gup Alessandro Chionna per rispondere di quel delitto, commesso quasi un anno fa, nella notte tra il primo e il 2 agosto 2013. Teneva la testa tra le mani, gli occhi pieni di lacrime, mentre il pubblico ministero Nadia Calcaterra ripercorreva i difficili rapporti famigliari, sia con la vittima, Lucas Joao, che con la matrigna Elisa Clemente e le tensioni insopportabili che logoravano le dinamiche domestiche, guastate anche dalla sorella dell’assassino, Rosa.
In conclusione il pm ha chiesto una condanna a sedici anni, con equivalenza tra le attenuanti generiche e le aggravanti. Una richiesta tutto sommato contenuta, che tiene conto sia della giovanissima età di Joao che dell’impossibile convivenza sotto lo stesso tetto di via Pindemonte. Le avvisaglie della tragedia c’erano già state a dicembre del 2012, quando Lucas ed Elisa si rivolsero al commissariato sporgendo un esposto contro quel ragazzo ribelle, disordinato, incapace di soggiacere alle più elementari norme sociali, svogliato e con le mani bucate, proprio come la sorellina, brava solo a collezionare scarpe fino ad arrivare a quota ottanta: durante una delle tante litigate scoppiate in casa, l’imputato avrebbe addirittura afferrato quattro coltelli, tentando l’aggressione al padre.
La notte del 2 agosto 2013 però arrivò fino in fondo: "Perché ce l’hai sempre con noi?" urlò affondando una lama di ventun centimetri nel petto dell’immigrato e arrivando dritto al cuore. Accorata l’arringa dell’avvocato Alberto Talamone che, per inquadrare l’atmosfera in cui è maturato il delitto, ha citato i Fratelli Karamazov di Dostoevskij, e quel parricidio letterario frutto di conflitti morali, culturali, sociali. "Joao e la sorella sono cresciuti in Angola, un territorio di miseria e conflitti sanguinari, senza scolarizzazione, senza cibo, senza il padre, emigrato in Italia. Quando, ormai grandi, sono stati portati a Busto, dare loro regole e norme è stato quasi impossibile", è la sintesi della discussione, al termine della quale ha chiesto il minimo della pena invocando la preterintenzionalità del gesto, scaturito da un raptus, da un momento di "follia transitoria". Si torna in aula settimana prossima per la sentenza.
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