IL LUTTO
Addio a don Fabio Baroncini
Il sacerdote che fu pilastro di Comunione e Liberazione e Gioventù Studentesca s’è spento a Lecco a 78 anni
Don Fabio Baroncini se n’è andato a 78 anni nelle prime ore di stamane, lunedì 21 dicembre. Il pretesto per volarsene dagli amici santi (Luigi Giussani) e compagni di credo e d’azione (Enrico Manfredini su tutti) è stato il morbo di Parkinson, che lo affliggeva da anni.
Il sacerdote che introdusse il quarto d’ora di preghiera - strappato alla ricreazione - nell’allora V E del Liceo classico Cairoli di Varese, è spirato nella “sua “ Lecco, dove risiedeva da tempo dopo aver concluso l’esperienza pastorale nella parrocchia milanese di Niguarda. I funerali - come riporta la rivista Tempi - saranno celebrati mercoledì 23 dicembre, nel pomeriggio e la cerimonia sarà trasmessa in streaming.
A Varese, don Fabio, valtellinese di Morbegno, fu tra gli animatori dell’esperienza di Comunione e Liberazione insieme con don Sandro Dell’Era, a cominciare dal 1966, anno della sua ordinazione e fino al 1986, quando lasciò la Città Giardino per Niguarda.
L’esperienza di CL
L’anno della fondazione è il 1954, al Liceo Classico Berchet di Milano, quando l’allora don Alberto Giussani prende la cattedra di Religione. Da lì, il movimento si allarga alle comunità cattoliche giovanili di Varese e Lecco, due città che non erano - né sono tutt’oggi - sedi vescovili. Don Fabio giunge a Varese dieci anni dopo che il movimento ha cominciato a radicarsi, prima negli incontri in qualche villa di Velate, poi a Villa Stampa di Morosolo, infine negli oratori e nella scuole, a cominciare da quella simbolo dell’intellettualismo varesino, il Cairoli.
Qui don Fabio incontra gli studenti, spiega loro il verbo giussaniano, li provoca al dibattito, si scontra dialetticamente con professori marxisti - è l’inquieta stagione del Sessantotto -, fra tutti Cesare Revelli, costruendo l’alternativa alla dicotomia comunista-fascista. Non solo.
Fuori di scuola, don Fabio prosegue nel suo incontro con i giovani e collabora don Sandro Dell’Era nel primo nucleo effettivo di Gioventù Studentesca, nell’allora Casa della Cultura di piazza Beccaria, a Varese. Da qui il mesaggio ciellino s’allargherà fino a conquistare - nel senso anche politico del termine - le parrocchie più importanti della provincia, mettendo poi base all’oratorio di San Vittore, in via San Francesco, tutt’oggi fucina di giovani cattolici, seguaci del messaggio giussaniano.
Lidia Macchi
Lidia era una delle studentesse che partecipava a quel quarto d’ora di preghiera, insieme a decine di altri. L’allora V E era gremitissima e don Fabio, lungo e dinoccolato, catalizzava l’attenzione ponendo al centro del discorso l’uomo e il senso della sua avventura alla luce degli insegnamenti di Cristo.
Lidia fu uccisa nel gennaio del 1987, pochi mesi dopo che don Fabio aveva preso servizio a Niguarda. Essendo riferimento di Gioventù Studentesca, il don viene interrogato dall’allora pm Agostino Abate che sta indagando su un altro sacerdote, don Antonio Costabile, risultato estraneo ai tragici fatti solo decenni dopo quell’accusa infamante.
Don Fabio si ritrova, sempre quale teste, nell’inchiesta - naufragata in Appello - avviata dall’allora pg Carmen Manfredda contro Stefano Binda.
«La mia domanda è questa - così Manfredda a Baroncini -: lei ha affidato Stefano Binda a Lidia Macchi per risolvere i suoi problemi (di droga, ndr)? No, no. Non sapevo, ripeto, non sapevo che Binda avesse questi problemi, non lo sapevo. La mia posizione sulla questione della droga è sempre stata chiara, ho sempre sconsigliato i ragazzi di aiutare gli altri compagni che fossero nella droga».
E ancora: la sua deposizione, raccolta in un verbale di una quarantina di pagine, non lascia spazio a dubbi rispetto all’ipotesi che don Fabio possa sapere qualcosa sull’omicidio da trent’anni, in qualità di guida spirituale o confessore dei ragazzi di CL dell’epoca.
«Se avessi avuto il sospetto su qualcuno - dice infatti seccamente a un certo punto il sacerdote, allora settantacinquenne - questo sarebbe arrivato alla giustizia».
E un’altra precisazione importante è quella relativa alla distinzione tra il «piano della confessione e quello del consiglio».
«Ragazzi di CL non ricordo di averli confessati».
A proposito della lettera anonima “In morte di un’amica”, arrivata alla famiglia Macchi il giorno dei funerali di Lidia ed elemento fondamentale del quadro accusatorio a carico di Binda, che ne è ritenuto - erroneamente - l’autore dalla pubblica accusa, don Fabio spiega al pm Carmen Manfredda di averne tenuta una strofa nel portafoglio «per cercare di vedere se trovavo una grafia corrispondente, ma non si è mai trovata». La sua impressione sull’anonimo?
«Non posso escludere che quella lettera sia stata scritta da un ragazzo che abbia una cultura nata dentro l’esperienza di Comunione e Liberazione, non posso escluderlo»
Ma si sarebbe trattato, secondo il sacerdote, solo dello scritto, «come si usava allora, di uno qualunque dei suoi compagni, che preso atto di quella terribile morte scriveva quella lettera».
Impressioni su Varese
In un’intervista rilasciata alla Prealpina pochi anni fa, Baroncini spiegò così la sua relazione con la città.
«Quando partii per Niguarda, il tessuto sociale della città si presentava come un terreno di coltura ideale per rivendicazioni che anni dopo sono state fatte proprie dalla Lega. Ricordo che monsignor Manfredini al mio arrivo a Varese nel 1966 mi metteva in guardia dal tessuto culturale della città, chiusa, per non dire impenetrabile. La diffidenza, se non la refrattarietà per chi o ciò che è diverso, nasce da questa chiusura. Non a caso, i venti del ’68 Varese l'hanno solo lambita».
«Un ricordo sfocato - chiosò don Fabio - perché ho tagliato quasi tutti i ponti. Ma anche la consapevolezza d'un esperienza per me importante qual è stato l'insegnamento al Cairoli, un ambito assai vivace sia per merito dei colleghi sia per le capacità dei ragazzi. Quel tempo è stato un momento significativo del mio cammino. E non credo solo del mio».
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