IL CASO
Varese: «Chiedo giustizia per mia sorella Adelina»
Parla la sorella della donna suicida a Roma alla quale era stata negata la cittadinanza italiana. Interviene anche Sinistra Italiana

«Chiedo giustizia per mia sorella. Lei ha affrontato la vita aiutando le persone a non soffrire: quando è stata lei a chiedere aiuto, nessuno l’ha aiutata». A lanciare l’appello è Ermira Sejdini, sorella di Adelina, che sabato scorso si è tolta la vita lanciandosi da un cavalcavia ferroviario a Roma dopo che le era stata negata la cittadinanza italiana, che aspettava da anni, e riassegnata quella albanese, che non voleva più.
Un fatto che aveva traumatizzato la donna. Grazie alle confessioni di Adelina Sejdini più di vent’anni fa erano state arrestate in provincia di Varese quaranta persone e ne erano state denunciate altre ottanta, tutte appartenenti al racket albanese della prostituzione.
«Voglio sapere cosa è successo - ha affermato Ermira -. La salma non ci è ancora stata restituita. Dalle istituzioni abbiamo avuto solo una telefonata, a mio padre, per annunciare che mia sorella era morta».
Del “caso Adelina” si è interessata in questi giorni anche Sinistra Italiana: «La tragedia della ragazza malata che si è suicidata nei giorni scorsi a Roma dopo la mancata cittadinanza è una vicenda che pretende giustizia. Stabilendo le responsabilità e accertando cosa sia successo in troppi uffici del nostro Paese, dove evidentemente l’ottusità e la burocrazia la fanno da padrone. Occorre ripensare questo insensato e disumano sistema che preclude il futuro di tante, troppe, persone», ha detto il segretario nazionale Nicola Fratoianni. Che ha preannunciato anche un’interrogazione al governo.
«Adelina Sejdini aveva 22 anni quando arrivò in Italia nel 1996. Ebbe il coraggio e la forza - ha detto ancora Fratoianni - di denunciare i suoi sfruttatori. Grazie alle sue rivelazioni vennero arrestati 40 membri della mafia albanese coinvolti nel racket della prostituzione, altri 80 denunciati. Era gravemente malata e da tempo chiedeva la cittadinanza italiana per non dover tornare nel suo Paese. Ma durante l’ultimo rinnovo del permesso di soggiorno le era stato revocato lo stato di apolide e nonostante l'invalidità al cento per cento era stata riconosciuta come lavoratrice, facendole perdere sussidi, pensione di invalidità e la possibilità di una casa popolare».
«Una vicenda straziante che però ci sbatte in faccia l’incubo che deve affrontare chi chiede solo di essere cittadina e cittadino di questo Paese, di essere accettato come essere umano».
Conclusione del segretario di Sinistra Italiana: «Tutto questo segna il fallimento di uno Stato che non riesce a tutelare e assistere chi, con enormi conseguenze e indicibili sofferenze, decide comunque di non voltarsi e fare la cosa giusta».
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