LA SENTENZA
Coltivava marijuana: condannato
Quarantacinquenne varesino prende due mesi e venti giorni

Coltivava marijuana e per questo è stato condannato.
Un vicino di casa dell’uomo, tempo fa, aveva chiamato le forze dell’ordine sostenendo di aver visto due ladri uscire in tutta fretta da un appartamento a Biumo Inferiore.
Arrivati sul posto, gli agenti della Volante non avevano però visto nessun malvivente.
In compenso, però, scoprirono diciassette piantine di marijuana nel giardino dell’abitazione del presunto derubato.
Così un 45enne varesino, all’epoca dei fatti in vacanza sulle spiagge della Croazia (era l’agosto del 2013), si è ritrovato prima indagato e poi processato per illecita coltivazione di sostanze stupefacenti.
Un processo alquanto tribolato, concluso ieri, lunedì 29 aprile, con una condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione “sentenziata” dai giudici della prima Corte d’appello di Milano.
Punito in primo grado (e in abbreviato) con due mesi e 20 giorni di reclusione dal gup varesino Anna Giorgetti, il “coltivatore”, difeso dall’avvocato Vera Dall’Osto, fu prosciolto al primo passaggio in appello sulla scorta del fatto che la condotta dell’imputato «non era in grado di mettere minimamente a repentaglio la tutela della salute pubblica».
Le piantine incriminate al momento del sequestro «non erano ancora giunte a maturazione» e una consulenza tossicologica «aveva evidenziato la presenza un principio attivo decisamente esiguo», per non dire irrisorio.
Di più, là dove si trovavano le piantine non erano stati rinvenuti attrezzi per la coltivazione, né strumenti idonei a configurare una possibile attività di spaccio.
L’interpretazione non aveva convinto il sostituto procuratore generale di Milano Daniela Meliota che non esitò a impugnare il verdetto assolutorio in Cassazione prospettando «un vizio di violazione di legge», nonché «la manifesta illogicità della sentenza», posto che a detta della pubblica accusa «la coltivazione di piante da stupefacente integra di per sé un reato di pericolo presunto, in quanto attività potenzialmente diffusiva di droghe».
Il ricorso della Procura generale del capoluogo lombardo è stato giudicato fondato dalla Suprema Corte che, rinviando il fascicolo di nuovo in Corte d’appello a Milano, ha tenuto a sottolineare come «ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo».
«Poco importa la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza», aveva aggiunto la Cassazione. Più importante, invece, «la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza drogante».
Argomentazioni, quelle degli Ermellini, evidentemente ritenute condivise dalla prima Corte d’appello di Milano, che non a caso ha deciso di ripristinare la condanna del gup del Tribunale di Varese.
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