IL PROCESSO
«Ergastolo per Binda»
Requisitoria della sostituta pg Gualdi, chiesto il massimo della pena per l’imputato dell’omicidio di Lidia Macchi

Sei ore di requisitoria e alla fine la richiesta di condanna: l’imputato Stefano Binda «è responsabile dell’omicidio di Lidia Macchi» avvenuto il 5 gennaio 1987 «e per questo va condannato alla pena dell’ergastolo» dalla Corte d’Assise di Varese presieduta da Orazio Muscato, considerate le aggravanti della crudeltà e dei futili motivi.
Alle ore 17.25 di oggi, mercoledì 28 marzo, il pubblico ministero Gemma Gualdi ha chiuso così, dal suo punto di vista, il processo per il “cold case” varesino per eccellenza.
«La difesa sosterrà che la prova non è stata raggiunta - ha detto Gualdi alla fine del suo intervento - e che contro l’imputato ci sono solo suggestioni, interpretazioni maliziose di casualità o di elementi inesistenti. Non è così: non si tratta di mere congetture, ma della valutazione unitaria di numerosissimi indizi univocamente concordanti, per i quali non esiste una possibile lettura logica alternativa».
Binda «ha una conclamata doppia personalità, alla Dottor Jekyll e Mister Hyde potremmo dire con semplificazione giornalistica - questo il ragionamento del pm -. E il delitto è stato conseguenza di un’emozione incontrollata provocata da un disturbo border line della personalità, aggravato dalla tossicodipendenza, ma non rilevante rispetto alla capacità di intendere e di volere».
«TENTATIVI DI DEPISTAGGIO»
Dieci tentativi di depistaggio: li aveva denunciati oggi, il pm Gualdi nel corso della sua requisitoria al processo a Stefano Binda per l’omicidio di Lidia Macchi del 5 gennaio 1987.
Dalla prima lettera anonima scritta da una presunta sensitiva subito dopo il ritrovamento del cadavere alla distruzione dei vetrini con il liquido seminale dell’assassino da parte della magistratura varesina.
Dal ritrovamento di quattro vetrini misteriosamente «sopravvissuti» alla distruzione, nella Medicina legale di Varese l’estate scorsa, alla comparsa sulla scena dell’avvocato bresciano Piergiorgio Vittorini, legale del presunto vero autore della lettera anonima, in silenzio in aula e prodigo di dichiarazioni con i giornalisti. E, ancora, il fascicolo originario scomparso e ritrovato, la testimonianza di Gianluca Bacchi Mellini, che ricorda in aula Binda a Pragelato mentre durante le indagini aveva detto il contrario, le lettere di Federico Aletti alla Prealpina, la vicenda di Lelio, l’ingresso dell’ex gip Ottavio D’Agostino in aula a sorpresa, la trasmissione di anonimi che continua ancora oggi, testi scritti con il normografo e con linguaggio tecnico.
«Ma oggi possiamo dichiarare falliti tutti questi tentativi di depistaggio, ha concluso il pubblico ministero.
«BIANCHI CAPOSALDO DELL’ACCUSA»
«Più di trent’anni ci sono voluti per arrivare ad oggi, più di trent’anni per arrivare a un piano e sereno disvelamento dei fatti».
Così il pubblico ministero Gemma Gualdi aveva iniziato, nella mattina di oggi la requisitoria.
Requisitoria che presumibilmente si concluderà con la richiesta di condanna dell’imputato.
Il pm è partito dalla supertestimone Patrizia Bianchi, che ha definito «cardine portante di questo procedimento» e della quale ha sottolineato l’assoluta attendibilità.
Ma nel corso della mattinata è stata una sorpresa l’indicazione di un altro teste ritenuto fondamentale, quel Lelio Defina che a un certo punto del processo era saltato fuori, grazie a un’altra testimonianza, come ipotetico assassino reo confesso.
Lelio non ha ucciso nessuno, ma le sue parole in aula sono ritenute dal pm importantissime per confermare una frequentazione universitaria tra Lidia Macchi e Stefano Binda.
E «non è un problema il fatto che l’uomo sia schizofrenico».
«La sua malattia, ha detto Gualdi, non ha rilevanza rispetto alla qualità della sua memoria e quello di Lelio è “un rigore logico e mnemonico insuperabile».
Servizio sulla Prealpina di giovedì 29 marzo.
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