ROMA
WhatsApp alla ex per tornare insieme. «È molestia»
La Cassazione conferma la condanna. Anche se la ragazza poteva bloccare i messaggi

Inviare messaggi WhatsApp alla ex, non graditi da quest’ultima, per tornare insieme costituisce reato. Lo ha sancito la Corte di Cassazione pronunciandosi su un ricorso contro una sentenza che aveva condannato un giovane per molestie, infliggendogli il pagamento di un ammenda. La responsabilità consisteva soprattutto, secondo la sentenza impugnata, nell’aver inviato appunto messaggi telefonici, adottando così una condotta tale da tediare la vittima.
La difesa: «Poteva bloccarli»
I difensori dell’imputato si sono rivolti alla Cassazione contestando alcuni punti: il Tribunale, secondo i legali, avrebbe travisato le prove, ritenendo irrilevante la circostanza che la condotta dell’imputato si collocava nella fase di cessazione della relazione sentimentale intercorsa con la persona offesa, fase caratterizzata dalla reciprocità dei messaggi, ammessa dalla stessa donna, e privi di contenuto lesivo. Inoltre, la difesa ha sostenuto che tutti i messaggi erano stati inviati tramite WhatsApp, sicché la loro ricezione poteva essere bloccata dal destinatario, escludendosi in tal modo la possibilità di recare molestia o disturbo. E lo stesso giovane - aggiungono i suoi legali - aveva invitato la ex, se non avesse voluto ricevere i suoi messaggi, a bloccarli, cosa che la ragazza non aveva fatto, assumendo così una sorta di consenso. Ma c’è di più, secondo gli avvocati: l’aver precisato che lei avrebbe potuto bloccarlo, avrebbe dimostrato che l’imputato non intendeva turbare la sfera di libertà della ragazza.
Gli Ermellini: «Interferenza non accettata»
La Cassazione, come detto, ha giudicato inammissibile il ricorso. E ha fissato alcuni punti fermi: «L’elemento materiale della molestia - si legge nella sentenza degli Ermellini - è costituito dall’interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona e l’atto per essere molesto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole, ossia riprovevole motivo o rivestire il carattere della petulanza, che consiste in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente». Ma attenzione: «Questa Corte ha inoltre affermato che il reato di molestia non ha natura necessariamente abituale e richiede necessariamente una reiterazione di comportamenti intrusivi e sgraditi nella vita altrui, sicché può essere realizzato anche con una sola azione purché particolarmente sintomatica dei motivi specifici che l’hanno ispirata». Il reato di molestie presuppone l’elemento soggettivo. E la Cassazione lo ravvisa, nel caso specifico: «L’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione dell’agente di operare per un fine non biasimevole».
«Basta l’avviso acustico»
E si arriva alla questione WhatsApp. Ecco che cosa ha scritto la Corte: «Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l’invio di sms e messaggi WhatsApp, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola “è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell’avvertimento acustico che indica l’arrivo del messaggio, ma anche - va soggiunto - dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l’anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco”, realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera delle attività del
ricevente». E poi la questione del blocco dei messaggi che avrebbe evitato alla ragazza di ricerverli. La Cassazione lo ritiene non rilevante ai fini dell’esclusione del reato: «Si è altresì ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente (sgradito), possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione, semplicemente escludendo o bloccando il contatto indesiderato. In realtà, tenuto conto che il reato di cui all’art. 660 c.p. (molestie Ndr) mira a tutelare, non già la libertà di comunicazione del destinatario dell’atto molesto, ma a prevenire il turbamento della tranquillità pubblica, e considerato altresì che anche le telefonate sgradite, persino su apparato fisso, possono attualmente essere "bloccate" attraverso la apposita funzionalità, ciò che rileva ai fini della sussistenza del reato in parola, "è l' invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l'azione perturbatrice, già subita e avvertita come tale, ovvero di prevenirne la reiterazione, escludendo il contatto o l’utenza sgradita senza nocumento della propria libertà di comunicazione». E infine, il fatto che i messaggi fossero reciproci e che i due si trovassero in fase di rottura della relazione, «non evidenziano effettive forme di contraddittorietà, illogicità della motivazione nel ricostruire gli elementi indicativi della responsabilità per il fatto oggetto di imputazione».
Morale: prudenza anche coi messaggi WhatsApp. Il reato è dietro l’angolo.
Di recente a Varese, la questione dei WhatsApp poco graditi era stata evidenziata in un convegno sulle violenze di genere in ambito di lavoro.
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