L’INTERVISTA
Binda: Lidia, il carcere, la verità
Assolto in appello dopo l’ergastolo in primo grado e tre anni e mezzo di carcere, ora attende la Cassazione: «Non temo l’ultimo giudizio»

Stefano Binda, la guardo nella foto del giorno del suo arresto come presunto assassino di Lidia Macchi, il 15 gennaio 2016, 29 anni dopo l’omicidio. E la guardo ora, qui davanti a me. Vedo due uomini diversi. È vero solo dal punto di vista fisico?
«Fisicamente sono cambiato. Sono evidentemente dimagrito. Ma quello che mi è successo negli ultimi anni è qualcosa di più profondo. È come se fossi tornato ad aderire alla mia pelle. In carcere ho avuto la possibilità di ripensare alla mia vita. L’ho sempre detto e lo ripeto anche ora: sono innocente per quanto riguarda le accuse dei processi. Non ho ucciso Lidia. Ma non sono “l’innocente”: ho commesso errori, ho avuto e ho fragilità. Potevo andare in pezzi e invece non è successo. Ho fatto pace con le mie debolezze. E a quel punto ho smesso di essere sulla difensiva e ho iniziato a difendermi davvero. Lo dico a me stesso e agli altri anche oggi: ho sopportato molto, ma non ho subìto nulla».
Torniamo al giorno dell’arresto: qual è stato quel giorno il suo stato d’animo dominante?
«Quel giorno è stato come l’esplosione di una granata. In un momento come quello si pensa solo a resistere. Si fatica a pensare, si cerca di evitare la disperazione. Ho cercato di raccogliermi in me stesso. Se vogliamo trovare un’immagine, ho tentato di stare dentro l’occhio del ciclone, dove c’è calma, nonostante tutto, per non farmi travolgere».
Lei era stato interrogato e indagato per il delitto Macchi l’estate precedente. Aveva subìto perquisizioni. Davvero non temeva l’arresto?
«No, è stato un’assoluta sorpresa. Avevo letto sulla Prealpina che per Giuseppe Piccolomo, inizialmente indagato per l’omicidio, era stata chiesta l’archiviazione dopo un confronto del Dna. E a quel punto, ingenuamente, ho pensato che tutto fosse risolto. Ho pensato: gli inquirenti hanno il Dna dell’assassino e se il confronto ha scagionato Piccolomo, posso stare tranquillo. Scagionerà anche me».
All’origine di tutto c’è una vittima, Lidia Macchi, uccisa in modo atroce a vent’anni, che lei conosceva. Chi era Lidia per lei?
«Era una conoscente di scuola e di CL. Di lei ricordo una conversazione su un pullman, tornando non so da dove: non so nemmeno ricostruire il contenuto esatto del nostro dialogo, ma le sue parole mi colpirono. Se penso a lei oggi, mi dico che solo tre persone hanno la certezza assoluta di quale sia la verità sul mio caso. L’assassino, che potrebbe anche essere morto. E Lidia e io: entrambi sappiamo come sono andate le cose».
Che cosa direbbe alla mamma di Lidia se avesse la possibilità di incontrarla? E, prima ancora, vorrebbe incontrarla?
«Una delle cose che per me sono state più dure in assoluto è stato sapere che dopo il mio arresto al padre di Lidia era stato detto che c’era un colpevole e che quel colpevole ero io. È terribile per me pensare che quell’uomo malato abbia chiuso gli occhi e se ne sia andato con questa convinzione. Ma oggi la famiglia Macchi ha scelto di ricorrere contro la mia assoluzione in Cassazione. Direi che non ci sono le condizioni per un incontro, se questo incontro deve avere un senso. Capisco la loro ricerca, capisco il loro dolore. Ma il dolore non dà alcuna “patente” di infallibilità. Dopo la mia assoluzione, lo scorso luglio, Stefania Macchi ha detto che per quanto riguarda la condanna precedente c’erano, sì, alcune “criticità”. Io parlerei di dubbi, ma la sostanza del discorso non cambia: è uno dei capisaldi della civiltà occidentale che senza prova certa non c’è condanna».
Lei ha vissuto due esperienze estreme dal punto di vista giudiziario, la condanna all’ergastolo per omicidio e l’assoluzione per non aver commesso il fatto, con la fine della custodia preventiva: quali sono stati i suoi primi pensieri in questi due momenti?
«Non parlerei di pensieri. Tutte e due le volte ho alzato lo sguardo verso l’alto. A Milano, nell’aula della Corte d’Appello, sulla parete di fondo c’è lo stupendo mosaico di Sironi sulla Giustizia. Per come eravamo disposti, la Giustizia era a piombo sopra la Corte, l’immagine della Forza davanti all’accusa, Legge e Verità davanti a me e ai miei avvocati, Patrizia Esposito e Sergio Martelli. Mentre a Varese, quando mi hanno condannato all’ergastolo, ho alzato gli occhi e dietro la Corte ho visto il vuoto».
Il processo non è finito: tra qualche mese ci sarà il terzo grado di giudizio davanti alla Corte di Cassazione. Con quale spirito ci pensa oggi?
«Non lo temo. Assolutamente. Direi che lo attendo con spirito di sacrificio. E penso che ci sia stata la volontà di rinviare ancora di qualche mese la fine della mia vicenda. Dal punto di vista tecnico, poi, sto valutando con i miei legali quali documenti, presi dal mare di carte che ormai è il processo, inviare a Roma, perché è su questi che la Corte di Cassazione si pronuncerà».
Molti hanno detto, durante l’indagine e i processi, che era necessario cercare la verità sulla morte di Lidia, e non «un» colpevole ma «il» colpevole. A questo punto, dà per certa la buona fede di tutti? E prova rancore per le scelte di qualcuno?
«Io non ho davvero sentimenti di rancore verso nessuno, ma purtroppo non posso dirmi certo della buona fede di tutti. E su certe responsabilità, non sulle persone, ho un giudizio chiaro e severo».
Lei è credente: da questo punto di vista è stato difficile per lei conciliare quello che le è successo con l’idea di un Dio giusto e misericordioso?
«Pensare che siamo solo una manciata di carne venuta fuori dal nulla e che viaggia verso il nulla, in mondo dominato dall’assurdo e dall’insensatezza, sarebbe meglio? Quello che mi è successo lo trovo assurdo, ma qualcosa dentro di me gorgoglia e si ribella all’idea che non ci sia un senso. Perché accade questo, adesso, a me? È un mistero, ma l’alternativa non è tra l’assurdo e la soluzione di un rompicapo. È come la storia del ricamo: visto da dietro, è un casino, un disastro, poi lo giri ed è bello».
Basta sentirla parlare pochi minuti per capire che l’esperienza del carcere paradossalmente l’ha arricchita, da un punto di vista umano e anche antropologico, verrebbe da dire. È vero?
«Non è un ambiente piccolo borghese. In carcere non si bara. Ed è un luogo di una durezza incredibile, l’istituzionalizzazione del disumano, perché il carcere non ha alcuna finalità di riabilitazione. Ma sono riuscito a essere libero anche lì, anche lì ho vissuto. Tanto è vero che quando è finito il processo d’appello ho pensato: mi hanno scarcerato, ma ero libero anche prima».
Il caso Macchi è stato spesso definito «mediatico», a partire dal fatto che è stata la pubblicazione della lettera anonima a lei attribuita da parte della Prealpina a far andare in Questura la testimone Patrizia Bianchi, sua antica amica. Che cosa pensa del processo mediatico, avendolo vissuto?
«Ne penso tutto il male possibile. Come tanti, del resto. È il linciaggio istituzionalizzato».
Durante il processo in aula c’è stato un momento in cui ha pensato: «Non è possibile che usino questo come prova contro di me»? E al contrario: «Accidenti, questa circostanza in effetti mi mette nei guai»?
«L’accusa l’ha detto sin dalla prima udienza a Varese: in questo processo non c’è la “pistola fumante”, la prova decisiva, e sarà un processo indiziario. Io ho sempre preso sul serio qualsiasi indizio raccolto contro di me e non potevo fare altrimenti, dato che si sottoponevano a interpretazione cose che avevo scritto quando avevo vent’anni. Quello che davvero mi ha colpito, che ho vissuto come negazione del diritto e come violenza, è il fatto che tutto e il contrario di tutto sia stato usato contro di me. Prendiamo ad esempio il DNA: è tuo, e sei impiccato, non è tuo, e allora è “neutro”. E poi c’è stata l’udienza in cui la Corte d’Assise di Varese ha impedito di parlare all’avvocato Vittorini, legale dell’uomo che dice di essere l’autore della lettera anonima. Ho chiesto di lasciare l’aula e di tornare in carcere. E ho pensato seriamente alla ricusazione dei giudici di Varese, dato che in quel momento era già certo che mi avrebbero condannato».
Che cosa pensa appunto della poesia anonima spedita ai Macchi pochi giorni dopo l’omicidio? È davvero attribuibile all’assassino, come ha sempre sostenuto l’accusa? E se non lo pensa, chi immagina ne sia l’autore?
«È chiaramente ispirata dalla teologia cattolica, ma non ci vedo un intento cattivo. Penso sia stato un tentativo, magari maldestro, di portare conforto alla famiglia».
Girando per i luoghi che erano e sono tornati quelli della sua esistenza quotidiana, ha la sensazione che gli sguardi della gente ora siano diversi?
«Nonostante il processo mediatico che mi voleva colpevole, a Brebbia il clima è sempre stato positivo, ho sentito affetto, ho vissuto slanci di tenerezza nei miei confronti. Tanti mi hanno chiesto “come si fa a stare in carcere da innocente?”. Ma quello che mi ha colpito di più è stato l’atteggiamento di mamme che hanno o hanno avuto un figlio in carcere, anche per una giusta ragione. Le incontro ed è come se mi dicessero “parlo con te perché tu sai di che cosa parlo”».
Che cosa fa oggi? E in caso di un esito della sua vicenda in Cassazione positivo e definitivo, chiederà un risarcimento per ingiusta detenzione?
«Collaboro con due realtà della provincia. Studio. Prego. Tengo a coltivare rapporti. E sì, quando l’esito del giudizio in Cassazione sarà definitivo, chiederò un risarcimento allo Stato per i miei tre anni e mezzo di carcere».
La sua storia potrebbe essere uno dei tanti errori che hanno caratterizzato le indagini sull’omicidio di Lidia Macchi, uno dei più gravi. Che idea s’è fatta della giustizia?
«Io sono stato condannato all’ergastolo da giudici e non è che sia stato liberato da un commando di alieni. Questo vuol dire che il sistema funziona? In primo grado c’è stato un “incidente” oppure in secondo grado ho avuto una “botta di fortuna”? Non è vero che tutto è bene quel che finisce bene. Qualcosa non ha funzionato, ma non credo che per correggere questa situazione siano necessarie altre regole, altre garanzie scritte. Servono moralità e onestà intellettuale in tutti quelli che fanno parte del sistema della giustizia».
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