IL DELITTO
Caso Macchi, senza verità da 37 anni
L’ultima speranza dal fascicolo a Varese

«È un grandissimo dolore non sapere chi mi ha portato via Lidia. Con gli anni però la mia fede si è approfondita. Anzi, è aumentata. Il Signore mi è sempre stato vicino e così Lidia: in tutti questi anni l’ho sempre sentita vicina e mi ha sempre sostenuto. Sono orgogliosa di avere avuto come figli lei, Stefania e Alberto. Ho avuto figli meravigliosi che non mi hanno mai abbandonato in tutti questi anni». Un altro (l’ennesimo…), triste anniversario per la famiglia di Lidia Macchi, la ventenne studentessa di Giurisprudenza di Casbeno scomparsa la sera del 5 gennaio di 37 anni fa e poi ritrovata accoltellata a morte nei boschi del Sass Pinin a Cittiglio, la mattina di due giorni dopo, ma le parole di Paola Bettoni, la mamma, rilasciate al nostro giornale all’indomani della sentenza che mandò assolto Stefano Binda, mantengono intatto tutto il loro valore. Non una parola fuori posto da parte dei familiari di Lidia che, con testardaggine, non hanno mai smesso di cercare l’autore dell’efferato omicidio.
Sono stati infatti proprio loro a chiedere e ottenere che una decina di anni fa la Procura Generale di Milano avocasse a sé un’indagine rimasta nel limbo a Varese per decenni. Quell’indagine, non priva di colpi di scena, ha portato il 15 gennaio di otto anni fa all’arresto del compagno di liceo e di Comunione Liberazione originario di Brebbia disposto dall’allora gip varesino Anna Giorgetti. Per Binda, 56 anni, una storia giudiziaria infinita e pure per lui parecchio dolorosa. Con una sentenza di condanna all’ergastolo per omicidio da parte della Corte d’Assise di Varese, poi cancellata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano, la cui sentenza di assoluzione «per non aver commesso il fatto» è stata infine confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione.
Nel mezzo quasi 1300 giorni di carcerazione preventiva. Tre anni e mezzo di «ingiusta detenzione» per i quali lui e i suoi avvocati, Patrizia Esposito e Sergio Martelli, stanno chiedendo ancora oggi l’indennizzo. Ad onore del vero, i giudici della quinta Corte d’Appello di Milano avevano riconosciuto a Binda un risarcimento di oltre 300mila euro, ma la Procura Generale ha impugnato in Cassazione e stavolta la Suprema Corte ha dato ragione alla pubblica accusa e ha annullato la sentenza di indennizzo, rinviando la questione di nuovo alla Corte d’Appello della metropoli lombarda. Corte che per altro non ha ancora fissato la nuova udienza.
Al momento, di riaprire il “cold case” non se ne parla. Ma, come ha sempre detto il legale della famiglia Macchi, l’avvocato Daniele Pizzi, «siamo di fronte a un reato imprescrittibile». Per cui è sempre possibile riattivare le indagini.
Ecco, parlando proprio di indagini, dopo la chiusura della vicenda giudiziaria di Binda, il fascicolo contro ignoti relativo all’omicidio del Sass Pinin è tornato sotto la competenza della Procura di Varese. E chissà che il nuovo procuratore capo in piazza Cacciatori delle Alpi, Antonio Gustapane, che prenderà possesso del suo ufficio il prossimo 18 gennaio, non decida di riprendere in mano il fascicolo e disporre qualche nuovo accertamento. Uno spunto investigativo da cui partire potrebbe essere rappresentato dai peli e dai capelli rinvenuti nella zona pubica di Lidia durante l’autopsia eseguita dall’anatomopatologa dell’Istituto di Medicina Legale di Milano Cristina Cattaneo. Formazioni pilifere che non appartengono né a Lidia, né ai suoi familiari, né al personale dell’obitorio e delle pompe funebri che entrarono in contatto con la salma.
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