IL RICORDO
Giovanni Borghi, l’operaio che fondò un impero
Cinquant’anni fa moriva “Mister Ignis, uno dei simboli dell’imprenditoria nazionale

Giovanni Borghi moriva 50 anni fa. Accadde non all’improvviso il 25 settembre 1975. Sembrava un invincibile guerriero: operaio nella Milano sotto i bombardamenti, fondatore di un impero industriale a Comerio tra il lago e la collina. Al secondo attacco della mala sorte, anni prima un infarto, poi un tumore, chinò il capo, chiuse gli occhi, si arrese.A uno a uno se ne vanno i grandi in questo maledetto 2025, Papa Francesco, Armani, Ambrosetti, Baudo, tutti novantenni o quasi. Borghi si spense a 65 anni dicendo al figlio Guido: potevo fare ancora molto, peccato! E allora bisogna vincere la tentazione di privilegiare la poderosa aneddotica fiorita attorno al cumenda col vocione rauco che diceva a tutti ghe’ pensi mi, al formidabile frequentatore di casinò, al focoso patron di pugili, ciclisti, calciatori e giocatori di basket mantenuti, i suoi gladiatori.
GLI ANNI DEL MIRACOLO
Così facendo si oscurerebbe la vera storia di un grande italiano che ha avuto poca giustizia nel tribunale della memoria. Alla stregua di Rizzoli, Moratti, Ferrari, Mattei, il trombèe diventato re dei frigoriferi ha marchiato indelebilmente un’epoca: quella del miracolo economico, dei favolosi anni ‘60, della Dolce Vita. Mi disse Giovanni Agnelli quando scrivevo la biografia di Mister Ignis che ha ispirato un film della Rai: «Borghi è stato il simbolo della più felice stagione dell’imprenditoria nazionale».
Raro che il re di Torino si scomodasse per un suo non pari: lo fece per l’altro Giovanni , memore, tra l’altro, del famoso 5-0 che il Varese presieduto da Borghi aveva inflitto alla sua Juventus nel campionato di calcio del 1968. Tre gol li segnò Pietruzzu Anastasi che poco dopo andò a servire la Vecchia Signora sfrontatamente vilipesa. Grande scorno per Fraizzoli che lo voleva all’Inter.
L’ingaggio di 660 milioni fu pagato metà in contanti, metà in compressori Fiat destinati ai frigoriferi Ignis. Economia creativa. Ignis era un marchio di ferri da stiro: Borghi lo acquistò da un commerciante di Milano, facendone la bandiera del riscatto economico italiano. Un giornale britannico scrisse che Mattei aveva procurato il gas al Bel Paese e Borghi gli aveva dato fuoco mettendosi a costruire fornelli. Dopo i frigoriferi vennero le lavatrici, i forni, le lavastoviglie. Come? Con le inarrivabili intuizioni industriali di uno che era padrone e primo operaio e che a modo suo, a volte con sani metodi da osteria, ha attraversato la società a tutti i livelli, dai club esclusivi ai luoghi del popolo, dando del tu a Ranieri di Monaco come fosse un giocatore delle sue squadre.
TU VINCI, IO VENDO
La comunicazione industriale mediata dallo sport è stata il suo capolavoro. Cominciò col pugilato, la passione di suo fratello Giuseppe, facendo stampare la parola Ignis sui parabordi del ring quando la Rai Televisione italiana registrava programmi sperimentali alla Fiera di Milano e il telecronista era un giovanissimo Mike Bongiorno. Continuò col ciclismo alla Sei Giorni chiedendo al suo cocco Antonio Maspes di fare surplace a un certo punto della pista dove il marchio Ignis troneggiava a caratteri cubitali. Io vi pago, voi mi fate pubblicità, voi vincete, io vendo: regola perfetta, ma sessant’anni anni fa, prima di Carosello, bisognava intuirla e costruirla. Eccolo il genio. Ed ecco che cosa disse in un’intervista suo nipote Fedele Confalonieri, figlio di sua sorella Gina: «Lo zio Giovanni è stato un Berlusconi senza laurea».
Quanti trionfi memorabili sponsorizzando la Valanga gialloblù nella pallacanestro, quante soddisfazione allorché le grandi uscivano peste dallo stadio di Masnago e il Varese calcio rischiò di vincere lo scudetto. E quanti ritratti. Indro Montanelli dopo un’intervista a Comerio: «Ancora un po’ che rimanevo a casa sua, ne sarei uscito con la maglia della Ignis sulle spalle». Giulio Andreotti che lo incontrò in Costa Azzurra: «Un uomo dalla simpatia contagiosa».
SI CHIUDE UN’EPOCA
Non ci sono più le fabbriche tirate su da Borghi a Trento, a Siena, a Napoli e il primo agosto scorso a Cassinetta di Biandronno, la culla della Ignis, poi della Philips, quindi di Whirlpool, oggi di Beko (olandesi, americani e turchi), è stato chiuso il reparto di progettazione dei frigoriferi, vero gioiello di ricerca e tecnologia. Gli imperi si sgretolano, il capitalismo familiare è sotto schiaffo da tempo, si è arresa anche la Candy. Gli elettrodomestici bianchi si fabbricano altrove, in Asia, nell’Europa dell’Est: così è. E pensare che proprio agli americani il Joan Padan dell’Isola Garibaldi aveva rubato il segreto delle schiume poliuretane negli anni ‘50 per isolare meglio i suoi frigoriferi e renderli meno goffi, più capienti. E pensare che Borghi e Zanussi, pionieri del bianco nostrano, avevano fiutato l’aria e volevano costituire il polo italiano degli elettrodomestici. E pensare che il nordista Giovanni fu tra i primi a investire a Sud, a Napoli precisamente, dove una sua fabbrica produceva lavatrici e una squadra di basket giocava in serie A pubblicizzando il marchio Fides. La Fides Partenope di Maggetti, Bovone e Gavagnin.
PUTIFERIO IN RAI
A Borghi toccò in sorte di sperimentare le agevolazioni della Cassa del Mezzogiorno ma per poco non fece venire un colpo al giornalista Paolo Cavallina quando in diretta tv la sparò grossa: «Non ho visto nessuna Cassa del Mezzogiorno a Napoli. Mi sono dovuto arrangiare con i miei geometri». Putiferio in viale Mazzini. Era la sera del 17 giugno 1961: la prima volta della parola “bustarella” insinuata in tv da un kamikaze in abito grigio appassionatamente verace e teatralmente intrigante. Appare profetico un ritratto di Giovanni Borghi tracciato da uno scrittore americano, John Philips, in un libro uscito negli anni del boom: «È popolare perché l’uomo della strada si identifica in lui come di solito non avviene, nel Bel Paese, con gli altri pezzi grossi». Non solo popolare, aggiungiamo: «La mia vita ha avuto un senso», si confidò il cumenda qualche tempo prima di morire di cancro, «perché credo che nessuno mi abbia mai odiato».
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