LO PSICOTERAPEUTA
La parola depotenziata. Conta solo l’immagine
Alberto Pellai: «I ragazzi di ieri non si tagliavano, ma avevano un amico o un’amica del cuore a cui confidare tutto. Il dialogo serviva a mediare»

Comunicare è fondamentale, non solo per riferire, ma anche per crescere e strutturare il sé. Ce ne parla Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva e scrittore. Autore del libro “Esci da quella stanza” scritto insieme a Barbara Tamborini.
Come comunicano i giovani oggi? E con quale linguaggio?
«I ragazzi di oggi hanno un’alfabetizzazione lessicale molto ridotta rispetto ai loro coetanei di 30 anni fa. È come se la parola avesse perso il suo valore, sia quantitativo che qualitativo, nel corso della loro crescita. I giovani si raccontano soprattutto attraverso le immagini. Il digitale e i social sono stati i principali facilitatori di questo cambiamento. Siamo partiti da Facebook, dove si digitava il testo e si aggiungeva l’immagine; poi siamo passati a Instagram, con immagini in primo piano e un testo ridotto, e siamo arrivati a TikTok, dove il testo non esiste e il messaggio è tutto da guardare. Questo ha portato al depotenziamento della parola».
Quali effetti provoca la perdita di valore della parola nello sviluppo dell’individuo?
«Nella mia prospettiva, che si basa sulla parola come mezzo per costruire i significati, se non ho questo strumento, ciò che ho dentro diventa pressante e deve essere tirato fuori in un altro modo. Da qui gli “agiti“, come gli atti di autolesionismo, con cui i ragazzi si guardano il sangue uscire, come se ciò che hanno dentro dovesse uscire in un’altra forma. I ragazzi di ieri non si tagliavano, ma avevano un amico o un’amica del cuore a cui confidare tutto. La parola diventava un mediatore. Ancor prima c’era il diario privato, l’urgenza di trasformare in parola qualcosa che c’era solo dentro. Oggi il diario segreto non esiste quasi più. La narrazione di sé avviene sui social ed è una falsificazione. Il diario era una raccolta di verità; mentre nei social si costruisce un “sé falso”, che è il più gradito e il più atteso da chi è fuori. Questo spiega il disagio psicologico di oggi: un’amplificazione di falsi sé costruiti ad hoc. Non si impara più a considerarsi validi per se stessi».
In che modo il linguaggio dei social media, con le sue abbreviazioni, emoji e la sua immediatezza, influisce sullo sviluppo cognitivo e sulla capacità di pensiero critico degli adolescenti?
«Un problema fondamentale è la banalizzazione. Si scelgono modalità molto sintetiche e veloci. Questa velocità, con cui si segue un contenuto basilare e già pronto per raccontare qualcosa di molto complesso, non lascia spazio a un lavoro di elaborazione profonda. A questo si aggiunge il malinteso: l’altro vede una “figurina”, un risultato che non corrisponde all’intenzione iniziale della comunicazione. Questo accade spesso nei messaggi brevi, che hanno poche parole e nessuna connotazione emotiva. Da qui nasce la disconnessione: attraverso queste comunicazioni generiamo incomprensioni gigantesche che, in una conversazione vis-à-vis, probabilmente non esisterebbero».
Ha un giudizio negativo sul linguaggio dei giovani?
«Qualsiasi forma di linguaggio è positiva. Ho, però, un giudizio critico sulla povertà del linguaggio di oggi, non strettamente giovanile. Io che faccio un mestiere basato sulla parola, sono colpito da come anche il mondo adulto abbia banalizzato il suo uso. Inoltre, il linguaggio è anche una questione di “come”. L’emisfero sinistro lavora sul verbale, il destro sul meta-verbale, ed è fondamentale che ciò che dico sia supportato dalle emozioni. Luoghi come la radio un tempo consentivano di costruire una competenza condivisa intorno alla parola, adesso sono un luogo in cui si strilla e si dicono ovvietà».
Linguaggio ed esperienza sono fortemente collegati. Ci sono dei comportamenti che, secondo lei, sono mutati nel tempo e hanno contribuito all’impoverimento del linguaggio?
«Negli ultimi due decenni il codice verbale è stato depotenziato. È diminuita la connessione emotiva. Lasciamo che le parole degli altri siano più presenti delle nostre. Chiediamo ai bambini di stare zitti quando siamo con loro, ma parliamo con altri, ad esempio usando in modo continuo il telefonino. Abbiamo demandato agli schermi la capacità di narrare. La lettura condivisa tra bambini e adulti è diventata oggetto di laboratori specifici, perché a casa nessuno la pratica più. Spesso nelle abitazioni manca l’angolo dei libri, l’unico luogo in cui si impara ad appassionarsi a un linguaggio verbale che incoraggia anche il meta-verbale. Tutto questo mette in crisi la parola scritta».
Gli adulti hanno dunque una responsabilità nell’evoluzione del linguaggio?
«Credo che l’adulto abbia la responsabilità di “curare” la parola. Il “cosa dico” e il “come lo dico” hanno un ruolo fondamentale. Oggi c’è un’enorme emergenza nell’educare alla bellezza della parola, che è arte, letteratura, musica e canto. Assistiamo, di contro, a uno sfruttamento della bruttezza della parola. Quando sono in auto con i miei figli, mi accorgo della scarsa qualità dei testi e delle parole nelle canzoni. Nella nostra generazione da “boomer”, la parolaccia era presente in modo limitato e con un significato preciso. Oggi è una costante che degrada la scelta di una parola più bella o complessa. Le parole brutte ci disabituano al bello. La bestemmia, quando viene sdoganata, desensibilizza la persona dal suo vero significato».
Può dare dei consigli concreti?
«Certo. Possiamo ripristinare il valore della lettura condivisa con i bambini piccoli e della lettura individuale quando crescono. Invito i docenti a far scrivere temi e a valorizzare le narrazioni autobiografiche. Riproponiamo ai ragazzi la visione di film lunghi che richiedono la capacità di restare dentro la narrazione, mantenendo l’attenzione anche in assenza di effetti speciali. È importante anche rimettere al centro la poesia. Imparare una poesia a memoria non è solo un esercizio cognitivo, ma insegna ad apprezzare la musicalità delle parole. Il prerequisito di tutto questo è che pranzo e cena tornino a essere momenti di dialogo, senza interferenze esterne, perché la relazione con i propri figli deve tornare ad essere percepita come fondamentale nella famiglia».
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