OMICIDIO DEL CONSENZIENTE
Morte al cimitero, due condanne. Lievi
Maurizio Capizzi: l’ex compagna e il suo amico patteggiano pene intorno ai due anni

A pensarci sembra una cosa assurda, quasi impossibile da immaginare. Maurizio Capizzi, 48 anni, imprenditore edile di Legnano, l’ha invece immaginata. Dopo due tentativi falliti di suicidio ha chiesto aiuto per essere ucciso. E quel suo desiderio disperato è stato realizzato il 31 gennaio di cinque anni fa davanti al cimitero della frazione nervianese di Garbatola.
Il patteggiamento
La sua compagna e l’allora amico di quest’ultima, gli “aiutanti” di Capizzi, se la sono cavata con una pena modesta. Accusati di una fattispecie di reato di per sé anomala come quella di omicidio del consenziente, Elena Re e Flavio Sermasi - entrambi 52enni, lei di Legnano e lui di Castellanza -, hanno patteggiato rispettivamente due anni e due mesi e due anni e undici mesi di reclusione. Secondo il pm milanese Bianca Maria Baj Macario, Sermasi è colui che ha premuto il grilletto di una pistola che non è stata mai più ritrovata. L’esecutore materiale di questa sorta di accompagnamento alla morte a mano armata. A giudicare congruo l’accordo sulla pena sottoscritto da Procura e difese è stato il gip Alessandra Clemente. A incidere sulla determinazione della pena il riconoscimento delle attenuanti generiche, e fin qui niente di strano, nonché quello delle circostanze attenuanti dei motivi di particolare valore morale e sociale, e qui la cosa potrebbe apparire meno normale. Quando Capizzi fu trovato cadavere su una panchina si pensò subito a un suicidio. In fondo, lì a due passi c’era parcheggiata anche la sua vettura ed erano noti i suoi abortiti tentativi di suicidio. Un foro sul torace squadernò ben altro scenario. Scenario confermato dall’autopsia. Nel suo polmone sinistro c’era l’ogiva di un proiettile. Le indagini dei carabinieri di Legnano e della Procura di Milano hanno permesso di scoprire che il suicidio era solo una messa in scena. Concordata dai tre protagonisti di questa storia. A confermare la ricostruzione degli inquirenti sono intervenute le parziali ammissioni dei due imputati, in un primo momento accusati di omicidio volontario. Più tutta una serie di sms dal contenuto inequivocabile; le immagini di un impianto di video-sorveglianza e la verifica delle celle telefoniche della zona. Attenzione: non c’era nessun motivo di acredine tra la vittima, da un lato e la compagna e Sermasi dall’altro.
La spinta finale
È stato Capizzi, malridotto e magrissimo per una malattia non incurabile ma che gli aveva causato un grave stato di depressione, che ha insistito affinché gli dessero finalmente la “spinta finale” per mettere la parola fine alla sua esistenza. Due i “fermo immagine” di questo strano omicidio. Il primo è il pomeriggio del 30 dicembre 2016, la compagna di Capizzi e l’amico sono ripresi mentre portano la sua auto nei pressi della scena del crimine. Il secondo verso le 4 del mattino del 31 dicembre, ecco che nello stesso luogo si scorge un’altra auto con a bordo due persone. Per la Procura sono Sermasi e Capizzi. Scendono entrambi, è buio. Poi c’è un flash, compatibile con la fiammata dell’unico sparo mortale, e subito solo una delle due persone risale sull’auto e se ne va.
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